Tartarino e la storia del calcio africano

(La prima volta di non so che cosa)

Mi viene sempre in mente quel faccione ampio come un libro squadernato di Tino Buazzelli, se penso ai miei anni passati davanti alla TV, quando ancora potevo farlo. Oltre a L’Isola del tesoro, che di solito accompagnava la merenda e, ahimè, i compiti, rivedo appunto l’imponente ma simpaticissimo Buazzelli impegnato in un’avventura di Tartarin di Tarascona. Indossava una sahariana, mi pare, con casco coloniale, fucile, e leone imbalsamato come tappeto; da una finestra si intravedevano dei baobab (chi li aveva mai visti?), ma non gli oleandri di quei bei pomeriggi, davvero troppo azzurri. Dev'essere nata lì la mia passione per l’Africa, ma più avanti, quando avrei potuto viaggiare, il terrore degli spostamenti aerei mi ha costretto a fare come Tartarino, dunque a lavorare di fantasia per raccontare storie, magari anche solo a me stesso, non avendo tempo e coraggio per viverle.

Per fantasticare a volte basta una pagina di un libro, barchetta apparentemente fragile proiettata nell'oceano  oppure missile di carta lanciato nello spazio. In un attimo percorri migliaia di chilometri, anche nel tempo, e confondi la storia, muti la geografia, il vero si intreccia al falso, e viceversa.. In un documento conservato alla Biblioteca Nazionale di Torino (cassetta XII, n° 1233/bis), vi è una lettera di Alphonse De Daudet a Edmondo De Amicis, datata Parigi, 10 marzo 1881, in cui i due discorrono di varie cose, e, pensate un po’ anche di sport, di qualcosa che parrebbe assomigliare al football. Daudet risponde in particolare ad una domanda dello scrittore italiano che gli chiedeva ragguagli su ciò che aveva visto in Marocco, durante un viaggio.

Era un tipo ben curioso l’Edmondo e andava in giro annotando cose da scrivere, lo sguardo attento. E prima di calarsi nel mondo di Franti o Garrone o Nelli (ricordate il gobbino alle prese con “le sbarre verticali”?) se ne era andato in giro, con tanta voglia di vedere e raccontare. Non gli erano sfuggite delle manifestazioni che oggi definiremmo forse ‘sportive’. Per esempio, nel secondo dei suoi libri di viaggio, vale a dire Olanda (Firenze, Barbera, 1874), impegnato a descrivere alcune bellezze e curiosità della città di L’Aja, visitata durante “l’inverno olandese”, si sofferma su ciò che, insieme alle corse con le slitte, “costituisce l’originalità e l’attrattiva principale della vita invernale di quel paese: ossia il patinamento”. Non è il caso di inseguire sul ghiaccio l’accurata narrazione di questa attività: per gli appassionati basterà qui solo ricordare con De Amicis, che “in Olanda vi sono due scuole di patinamento affatto diverse: la scuola olandese propriamente detta e la scuola frisona, ciascuna delle quali si serve d’una forma particolare di zoccoli. La scuola frisona, che è la più antica, non mira che alla celerità; la scuola olandese non cerca che la grazia”. Chi poi volesse cogliere visivamente i movimenti di tale diporto (magari osservando le speciali calzature che consentono di ‘sdrucciolare’), non dovrebbe far altro che aprire a pagina 145 l’edizione illustrata stampata da Treves nel 1885, dove appunto è riprodotta una coppia di pattinatori in azione.

Se dal freddo del nord ci trasferiamo al sole del sud, possiamo visitare le coste africane ancora in compagnia del nostro viaggiatore. Nel libro dedicato al Marocco, stampato da Treves nel 1876, De Amicis, sempre alla ricerca dell’esotico e del curioso, ritornato a Tangeri dopo una passeggiata sulla riva del mare, è irresistibilmente attratto dalle “feste per la nascita di Maometto”. Tra le diverse stranezze puntualmente registrate dall'occhio e dal taccuino, vi è un singolare “giuoco della palla”, che viene così descritto a p. 64:
Erano una quindicina d’arabi, ragazzi, uomini maturi e vecchi colla barba bianca, alcuni col fucile a tracolla, altri colla sciabola, e giocavano con una palla di cuoio grossa come un arancio. Uno la pigliava, la lasciava cadere e la ributtava in alto con un colpo del piede; tutti gli altri correvano per coglierla in aria; chi la coglieva, rifaceva l’atto del primo; e così il gruppo dei giocatori, seguitando la palla, s’allontanava man mano, e poi, di comune accordo, tornavano tutti insieme nel luogo di dov'erano partiti. Ma il curioso di questo gioco stava nei movimenti delle persone. Erano passi di ballo, gesti misurati, atteggiamenti di mimi, un fare quasi cerimonioso, una certa apparenza di contraddanza, un non so che di severo e molle insieme, ed una corrispondenza di mosse e di giri, in quell'andare e venire, di cui non mi riuscì di scoprire la legge. Correvano e saltellavano tutti insieme in un piccolo spazio, si serravano, si rimescolavano, e non seguiva mai un urto, né il più leggero scompiglio. La palla s’alzava, spariva, balzava in mezzo a quelle gambe e al disopra di quelle teste, come se nessuno la toccasse, e fosse rigirata in quella maniera da venti contrarii. E tutto quel movimento non era accompagnato né da una parola, né da un grido, né da un sorriso. 
Non vado oltre. Colpisce qui il tentativo di comprensione ed interpretazione del gioco, al fine di “scoprire la legge”, ossia le regole ad esso sottese. Che è in fondo un tipico atteggiamento europeo di fronte ai fenomeni non noti, i quali devono essere subito razionalizzati secondo schemi ben consolidati. Poco importa qui che il tentativo vada a vuoto, anche perché si è probabilmente davanti ad un’inedita mescolanza di componenti autoctoni ed elementi esterni, del resto facilitati dalla posizione geografica di Tangeri, vero e proprio ponte tra Africa ed Europa. In secondo luogo, richiamando alla mente anche l’esempio olandese, è evidente che per De Amicis, il quale ha ben presente i gusti dei suoi lettori, tanto il pattinaggio quanto il giuoco della palla (che troverà anch'esso una versione iconografica a pagina 52 della prima edizione illustrata [Treves, 1879]) siano innanzitutto delle curiosità da evidenziare, non delle vere attività sportive, come forse oggi sarebbero definite.

Verso i dieci anni, quando incominciai seriamente ad occuparmi di calcio, che divenne parte integrante della mia vita, come ho cercato di raccontare in Viola come il sangue (Limina, 1998); le figurine Panini divennero la bibbia quotidiana, ma anche una scuola fatta in casa, l’incontro con l’Italia delle regioni. Riguardatevi le facce dei calciatori degli anni sessanta, per favore. Dopo quarantanni sembrano un trattato lombrosiano. Nei visi erano scolpiti secoli di storia e di privazioni, gli occhi brillavano per fame e sete, non solo di gloria. E le maglie, le squadre con i nomi che non riuscivi a trovare sulla carta geografica: dov'era la Spal, da quale strano destino scendeva la Pro Patria? Verso i dieci anni mi capitò tra le mani appunto un’edizione illustrata di Marocco, che come al solito mi fece sognare. Tra le illustrazioni preferite – allora non mi interessava il testo e a De Amicis preferivo Salgari – c’era appunto quella che illustrava il passo di De Amicis. Una incisione non più grande di una figurina che non riusciva a dipanare il mistero di quel gioco, forse un’interpretazione originale del football, mescolato a usanze locali? Mah, chi lo sa. Non lo sapeva neppure Edmondo, ma all'altezza del 1876 nessuno parlava di calcio, nel bel paese. Gli storici ci ricordano infatti che il torinese Edoardo Bosio, rappresentante a Londra di una ditta commerciale, solo nel marzo 1887, di ritorno in patria, recò con sé un pallone da football. Entusiasta dei matches a cui aveva assistito oltre Manica, il Bosio avrebbe convinto alcuni compagni di lavoro a cimentarsi con la sfera di cuoio. Sul finire del medesimo anno, un altro italiano si sarebbe segnalato, questa volta nella capitale, alle prese con una “palla di ottimo cuoio con camera d’aria inglese”: era un personaggio importante, e si chiamava D’Annunzio.

Entrato in contatto con Daudet (se ne veda il ricordo deamicisiano in Ritratti letterari [Treves, 1881, pp. 1-50]), il nostro Edmondo chiedeva al francese se avesse in qualche modo contezza di quel gioco, che non sapeva definire, ma che gli interessava molto. Perché gli sembrava avere qualche affinità con il pallone con il bracciale che si giocava ancora in Piemonte, e che aveva una lunga tradizione in Italia, come poi avrebbe ricordato lo stesso De Amicis nel bellissimo Gli Azzurri e i Rossi. Daudet dovette rimanere perplesso di fronte a tale domanda; sì lui era stato in Algeria, aveva molte conoscenze nell'Africa francese, ma non ne sapeva nulla di quel gioco … Non volendo però deludere l’illustre interlocutore, concludeva la sua lettera (che traduco) con queste parole: “Capisco, caro amico, che lei sia come ossessionato dall'interpretazione di quel gioco, così come a volte ci si lascia ammaliare da un bel quadro o dal viso di una fanciulla, ma non sono in grado di aiutarla. Non sia però triste, perché non è detta ancora l’ultima parola. Domani incontrerò un amico che sa molte più cose di me, chiederò a lui, a Tartarino, di aiutarci e poi le farò sapere”.

Di quell'incontro e delle eventuali risposte di Tartarino, il tempo e la storia non ci hanno tramandato notizia. Permane dunque il velo su quella strana visione, su quel gioco ancora sconosciuto. Era forse la prima volta che un viaggiatore italiano incontrava il football, era la prima volta che un ragazzino incominciava a sognare di diventare come Rivera.

Alb