Le ceneri del Mago

di Giancarlo Dotto

"Oh, come tutto è provvisorio!"

Igienista e ateo convinto, scappava dalla monotonia come fosse la peste. Lo chiamavano “il Mago” perché trovava sempre la via più breve per arrivare al cuore delle cose. In porta o all'inferno. Suarez o il fuoco. Non importa come. “Due passaggi e gol”. Il suo slogan preferito. La sua combustione. Un anarchico errante, senza patria, conosciuto in tutto il mondo come H.H. Irrequieto da vivo e ancora più da morto. Smanioso di accendersi e di accendere gli altri.

Odiava il freddo e, a modo suo, apprezzava il focolare domestico. Purché non fosse mai lo stesso. Una sera si lasciò andare a tavola con la sua sterminata tribù multietnica, riunita per festeggiare l’anniversario del patriarca nato in un’isola bianca del Rio de la Plata o del Tigre, non si sa bene quando, tra gli ottanta e i novanta anni prima. "Da morto voglio essere cremato. Troverete per le mie ceneri un posto dove batta il sole e si senta il rumore del mare", aveva detto allegro ai suoi. Lo presero in parola, soprattutto Fiora, la moglie. Non poteva immaginare a cosa sarebbe andata incontro.

Il Mago adorava le donne e le Madonne. Spaccone e bugiardo con le prime, umile e arreso con le seconde. Qualcuno lo vide genuflesso alla grotta di Lourdes che pregava intensamente nella lingua in cui pensava, lo spagnolo. Uno dei suoi ultimi viaggi. L’ultimo fu, pochi mesi dopo, al cimitero di San Michele, detta anche l’isola dei fantasmi. Un labirinto dove ci si perde e ci si ritrova in ogni momento nell'allucinazione fosca delle nebbie, delle acque alte, delle gondole e dei vaporetti che traghettano a ciclo continuo parenti, becchini, cadaveri e turisti.

Nei forni crematori del cinerario, H.H. si presentò sigillato in un guscio di noce, inappuntabile nel suo abito e scarpe marroni, la cravatta verde e il messaggio d’amore di un tifoso stretto tra le dita, uno dei tanti ("Non potrò scordarti mai"), gli occhi beccati dalla morte e, congelata all'angolo delle labbra, la smorfia delle volpi impagliate, tra il sardonico e lo spaventato. Lo avevano sbirciato in tanti nella camera ardente della chiesa di San Giovanni e Paolo. Amici, parenti, tifosi, nostalgici e curiosi, i suoi calciatori di un tempo, tutti, anche Mariolino Corso, il sinistro vizioso di Dio, che aveva speso gran parte del tempo a spedirlo, quel mago di buonadonna, nei luoghi più torbidi della terra e ora che c’era finito davvero non gli pareva vero. Perché tutto sembrava, Acca Acca, meno uno disponibile a morire. Il suo vecchio compare di panchina Nils Liedholm era rimasto un paio di minuti a fissarlo pensoso dall'alto, con la sua faccia indecifrabile da totem vichingo. Probabilmente apprezzando in cuor suo la circostanza che li voleva così, lui lì nel ruolo di chi porge l’estremo saluto e l’altro, l’amico, in quello del caro estinto.

Non poté invece apprezzare, il Mago, l'affettuosa perizia con cui Gaetano, impiegato al cimitero di San Michele, tifoso interista da sempre, lo ridusse in cenere. I due s’incrociavano tutte le settimane, il sabato pomeriggio, lungo le calli di Venezia, che H.H usava molto prosaicamente come palestra personale ("la migliore al mondo") per fare l’interval training e le ripetute. Gaetano lo salutava ogni volta con rispetto. Il mago replicava con un lieve cenno del capo, probabilmente ignorando che quel tipo soave e corpulento un giorno lo avrebbe restituito allo stato più elementare della materia, in ossequio alla fondamentale lezione gesuitica del "polvere eri e polvere tornerai".

Abilissimo nel manovrare i tasti della combustione a metano, Gaetano si comportò da quell'esemplare professionista che era anche il giorno che gli consegnarono H.H., il suo eroe, in una versione definitivamente diversa da quella che era abituato a conoscere. Accese i tre bruciatori. La fiamma divampò subito enorme, avvolgendo la bara del mago in un rogo che lo accostò per sempre a tutti gli eretici, le streghe, gli eccessivi di ogni epoca. Due ore a novecento gradi bastarono a liquefare l’insieme, corpo, mago e legno. Alla fine, tutto quanto restò del Mago, un uomo da ottanta chili, brillantina inclusa, erano pochi residui polverosi, qualche ossicino sbriciolato e tanta brace ancora buona per arrostire un pescespada. "Un chilo di cenere più o meno", quantificò puntiglioso Gaetano, che un po’ era dispiaciuto d’aver incenerito H.H., un mito del calcio, ma adesso non vedeva l’ora di raccontarlo ai figli.

"Ma come, non conoscete il Mago? Era un genio molto bugiardo. Aveva fatto grande l’Inter grazie anche alle bugie. Passava ore a convincere Tagnin che era un fenomeno, Bicicli che era più forte di Garrincha. E loro ci credevano. Sapevano che era una delle sue fanfaronate, ma funzionava, eccome se funzionava". I figli lo ascoltavano a bocca spalancata, ammirati, ma anche intimoriti da quel padre enorme che inceneriva i miti.

H.H. cominciò a morire alle due di notte in un letto d’ospedale nella Plaza Mayor di Madrid. Un lieve attacco cardiaco. Allarmante per uno già scampato anni prima all'infarto. Il Mago non aveva letto Seneca ma ne condivideva il concetto: “Siamo vissuti tra i marosi, per morire torniamo in porto”. Abbandonò l’ospedale nottetempo, all'insaputa dei medici. Se proprio era necessario, voleva morire a casa. La sua splendida casa cinquecentesca a Rialto. La mattina dopo lo chiamano, c’è l’ambulanza nel canale che lo aspetta. "Che aspète! No ho finito di farme la barba!". All'ospedale civile di Venezia lo intubano. Fece in tempo a dire a Fiora. "Non me fido qui, le infermiere hanno il culo molle, chi ha il culo molle non capisce". L’ultima, folgorante sintesi nel suo miscugliato idioma di veneto e spagnolesco. Nascondeva le lettere delle sue spasimanti nel materasso. Fiora gliele traduceva con sublime distacco. L’ultima non fece in tempo. Lo rivide l’ultima volta che aveva una macchia viola, gelatinosa sul collo. "Dobbiamo cremarlo, era la sua volontà". Ma non c’era posto nel forno. Bisognava attendere. Lo sistemarono nel freezer. Quanto di peggio per uno come lui che non sopportava il gelo. Un turnista dell’obitorio, zavorrato d’oro e orecchini, s’inventò di esporlo con tutta la brina in faccia e sui vestiti. Al Mago piaceva truccarsi da clown per far ridere i figli, ma questa volta avevano esagerato.

Gaetano in persona consegnò, non senza un briciolo di commozione, le ceneri a Fiora. Due chili circa incluso il cofanetto e la piantina per trovare un loculo libero in quel labirinto. Fiora Gandolfi, turbante nero e scialle di porpora, era una vedova senza lacrime e con la sacca piena di ricordi. Più stupita che addolorata. Pianse anche per lei la figlia Luna. Aveva due anni quando il padre malato l’affidò a quei due, Fiora ed Helenio, che si stavano imbarcando al porto di Barcellona, in partenza per Genova: “Prendetela con voi, vi prego, ho pochi giorni di vita, sono spacciato”. Fu trovato pochi giorni dopo, morto alcolizzato dentro un water.

C’era vento. Fiora si perse e si ritrovò. Si perse ancora. Aveva terrore di scivolare. Se fosse caduta, la scatola si sarebbe aperta e le ceneri sparse, mescolate tra la sabbia e i sassi, non sarebbe stato più possibile distinguerle da tutto il resto. Ci voleva un muro dove battesse il sole e si udisse il rumore del mare. L’aveva chiesto il Mago, quella sera. Fiora ne trovò uno in un angolo sperduto, che si era appena liberato. Una bara deformata dai gas, quasi esplosa. Il cadavere, lì da quindici anni, aveva divorato i conservanti, era quasi integro, solo marcio dentro. Il posto era bello, ma il tanfo insostenibile. A furia di perdersi, capitò nel recinto evangelico. Qui tutto era perfetto. C’era calma, luce, la parete era bella. All'altezza di un uomo adorato dalle folle e dalle donne. L’urna come voleva lui, in alto, esposta al sole. E il rumore della laguna. A pochi metri dalle tombe di Ezra Pound e di Igor Stravinsky. Mancava solo il permesso della chiesa evangelica. Una formalità le dissero. "Qui sono sepolti cattolici, atei, ebrei". Ci voleva adesso una bella tomba. Fiora si attivò. Convocò un antiquario di Venezia, scelse il marmo migliore e commissionò l’urna a forma di Coppa dei Campioni. I lavori erano già iniziati quando si presentò una lugubre signora a nome della chiesa evangelica: "La tomba è un orrore, non vogliamo una tomba che somigli a un campo di calcio", fece sapere alla moglie e ai figli di H.H. Un caso di spocchioso razzismo verso "un plebeo" che aveva vissuto di calcio, la più plebea tra le attività fisiche umane. Che ne sapeva quella megera di H.H., dell’eroe picaresco dall'etica di ferro, che s’ispirava agli esercizi spirituali di Ignazio de Loyola e credeva nel valore orfico della parola? Che cercava sempre cielo, terra, acqua, verde, aria, ma si appartava nelle chiese per meditare, e di sé diceva, fino a convincersi: "Sono forte, tranquillo, sicuro, non ho paura di niente…Sono bello". La motivazione ufficiale della chiesa evangelica fu un’altra: "Non c’è più posto nel nostro cimitero per i non protestanti".

Una maledizione. Non avrebbe smesso di vagabondare nemmeno da morto, il Mago errante. Negato alla sepoltura, come Giordano Bruno, come altri grandi eretici. Le sue ceneri, ammucchiate in un cofanetto della Sperlari su cui Fiora aveva passato una mano di blu e inciso una foglia d’oro zecchino, restarono a lungo dimenticate in un loculo abusivo. Il nome di Helenio, scribacchiato a mano con il pennarello delebile del custode, si distingueva appena. in quella specie di colombaia altissima, dove Fiora arrivava tra le vertigini, in punta di piedi, arrampicandosi su una scala da pompieri e sistemando sull'ultimo gradino un Gabrielli, il dizionario dei sinonimi, ideale per questo genere di imprese.

Si offrirono in molti di ospitare Helenio nelle loro tombe di famiglia. Arrivarono petizioni, raccolte di firme, anche da Barcellona. Si sprecavano gli appelli, da Berlusconi a Biscardi. C’era la tomba a Casablanca della mamma e del papà di H.H., quella di Parigi dove era sepolta Daniele, la figlia morta a vent'anni per avvelenamento da colori tossici. Ma Fiora non si dava per vinta. “Quello è il suo muro, quella è la sua tomba. Non ce ne saranno altre”. Scrisse anche alla regina d'Inghilterra che, nella sua stanza da letto a Buckingam Palace, di fronte al baldacchino, ha una collezione unica di vedute veneziane del Canaletto. "Her majesty…", cominciava così la lettera, da manuale, scritta insieme a un amico maestro di corte.

La buona notizia arrivò finalmente, quattro anni dopo. Gli anglicani avevano dato il permesso. Le ceneri del Mago potevano essere sepolte nel posto che gli spettava. Ma non bastava. La lettera restò chiusa nei cassetti del Comune. Il permesso della Usl non arrivava. Passarono altri mesi. Altri appelli. Altre denunce. Il Mago non trovava pace. E con lui Fiora. Che cominciò ad aggirarsi per gli uffici del Comune come un collerico arcobaleno, minacciosa, un pipistrello rosa all'occhiello, al posto del fiore. Ma gli uomini, si sa, sono daltonici, non vedono i colori. E nemmeno le donne straziate.

Arrivò anche la firma del sindaco. Un giorno storico per H.H. La vittoria più sofferta, altro che Coppa dei Campioni! Pioveva e le gocce erano pesanti come proiettili astiosi. Il beccamorto s’arrampicò sul cofanetto della Sperlari, lo aprì e rovesciò le ceneri del Mago lungo l’imbuto nell'urna definitiva. Non era facile, a quella altezza e sotto il diluvio. Qualche granello di polvere scivolò fuori dall'imbuto, disperdendosi nel terriccio bagnato. Gaetano, che se ne stava in disparte, aspettò la fine della cerimonia, raccolse di nascosto quei granelli, li chiuse in un fazzoletto e li portò a casa. "Sono le ceneri del Mago" disse, regalandole ai figli, tifosi interisti anche loro “Conservatele in un posto asciutto e, tutte le volte che la vita vi sembrerà dura e sentirete di non farcela, stringetele forte e ripetete a voce alta questa frase magica: "Taca la bala!".

Il testo - disponibile nel sito ufficiale di Helenio Herrera - ha vinto il premio "Racconto sportivo CONI, 2001"

Addio al calcio


Valerio Magrelli
Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto 

Come in un curioso romanzo eroicomico, un tifoso «suo malgrado» accetta di esporre le proprie confessioni: l'epica irredimibile delle domeniche pomeriggio trascorse preda del televisore, la mite bellezza dei mille campetti improvvisati, i due tiri sulla spiaggia, la cronaca dei vecchi album sportivi, i palloni perduti sui prati montani.
Tramandato di padre in figlio come un rito d'iniziazione, il calcio appare infine come una staffetta, un pegno, un'umile divinità domestica chiamata a vegliare sul futuro delle famiglie italiane.


2010 | Einaudi | Estratto | Recensioni:  Valerio Rosa (L'Unità) - Giorgio Falco (La Repubblica)