L'allenatore


Salvatore Bruno
L' allenatore

"i greci raggiungevano l'estasi coi riti di Dioniso santa Caterina e i mistici del Trecento coi rapimenti nella preghiera gli anglosassoni la raggiungono col whisky noi robot dei paesi caldi del sud con le donne lui l'estasi la raggiunge solo con la Juventus cioè con la voce di Niccolò Carosio nell'attimo in cui annuncia risultato finale Juventus batte Inter o Milan o Roma o Fiorentina"

L'ombra autobiografica di Salvatore Bruno, questo allenatore che fa il giornalista, che per vivere scrive ma non parla, coincide con lo spirito dei tempi in cui il romanzo fu scritto e uscì per la prima volta nel 1963. L'Italia di allora era quella del boom economico, quel boom che spinge il protagonista del romanzo a sedere immobile in un caffè di piazza del Popolo, a Roma, a osservare depresso e muto il seducente effetto del suo stesso silenzio. Perché l'allenatore è un allenatore di donne, un uomo bello e ombroso, amato e mai amante, disilluso e infastidito dallo svolazzare di fatue e scontate falene.

1963 | Vallecchi | Baldini & Castoldi 2003 | L'autore

Chiacchiere e tortelli

di Claudio Sanfilippo

[Giulio D'Anna]
L’Uomosquadra aveva festeggiato fino a tarda notte coi parenti ai quali non aveva potuto dire di no, erano venuti apposta da Lodi e sua madre ci teneva. Avrebbe giocato nello Squadrone, che se l’era assicurato dopo intense trattative senza esclusione di colpi bassi, anche se mancava la ratifica decisiva della sua firma. 
L’Uomosquadra aveva perso suo padre in guerra e per festeggiare ci voleva almeno uno zio, così almeno pensava sua madre. Ma l’Uomosquadra sapeva che il giorno dopo avrebbe dovuto piantare il tecnigrafo dalle parti del centrocampo per architettare qualcosa che confermasse la bontà della scelta agli occhi dello Squadrone, che stava per sborsare una certa cifra. A parte il vino troppo frizzante e le filzette, a parte l’insalata russa e la cassoeula, bisogna calcolare che era tempo di Carnevale e sua madre aveva passato tutto il pomeriggio a friggere chiacchiere e tortelli. Tutto questo, pensava l’Uomosquadra mentre divorava tutte quelle squisitezze fritte nell’olio, non andava d’accordo col suo mestiere, ma soprattutto col suo ruolo di uomo-squadra. Si presentò al campo di gioco con la cera color mal di macchina, si infilò nello spogliatoio senza guardare in faccia nessuno, disorientando gli addetti ai lavori perché l’Uomosquadra era solitamente loquace e disponibile con tutti, al punto che qualche giorno prima aveva firmato quattro autografi a una maschera del cinema Plinius a spettacolo in corso, alla luce della torcia uso-scalini. L’Uomosquadra prese posto sulla sua panca, buttò la borsa a un metro dai piedi e prese la testa tra le mani.
I suoi compagni si stavano cambiando, il Cursore era già sul lettino dei massaggi a farsi sciogliere i muscoli dallo SciaMano, un ex-camallo che si rifece una vita per via della mano destra, baciata dal dono e più grande della sinistra di qualche tacca. Accanto a lui sedeva Sponda, maestro dell’uno-due, col quale dialogava spesso e volentieri in campo, nella vita meno perché era affetto da balbuzie acuta. Dai finestroni che davano all’esterno giungeva il rumore dei tifosi che stavano entrando nello stadio, i passi, le voci, i cori.
L’Uomosquadra stava per vomitare ma non poteva permetterselo, il Vate sapeva che quella poteva essere l’ultima stracittadina che avrebbe giocato con quella maglia e aspettava il suo colpo di reni, una di quelle traiettorie filanti per la stoccata del Mistero, l’unico centravanti tarchiato che riusciva a sembrare dinoccolato, col suo sinistro arrotato che somigliava a un jab da peso welter. L’Uomosquadra incrociò lo sguardo con il Pilone, il suo amico d’infanzia che a tredici anni era già uno e novantacinque, come adesso. Il Pilone inclinò la testa in un sorriso disperato alla Primo Carnera come per dire “tutto a posto vero?” ma l’Uomosquadra riuscì solo a strabuzzare gli occhi in una specie di splendore angosciato.
Evocò il soccorso di un qualsiasi desiderio erotico, qualcosa che potesse saltare dentro lo stomaco e miracolare la nausea: pensò alla Coscia, nel senso del tratto compreso tra l’anca e il ginocchio, appena svestita da una gonna leggera. La Coscia era la condanna soave del suo mondo erotico, perfino nel pieno di un atto sessuale l’Uomosquadra sentiva il dovere di concentrare il suo arrapamento su quella che ormai riteneva una specie di entità superiore ad uso delle sue fantasie.

Il Vate cominciò la chiama degli undici che sarebbero scesi in campo quel giorno, dal portiere alla seconda punta: Levatoio, Spuma, Portugal, Gambatesa, Pilone, Oriundo, Cursore, Sponda, Mistero, Uomosquadra, Vadasè.
Il Vate chiamò l’Uomosquadra da parte e gli mise in mano una scatola di mentine, gli ordinò di mangiarle tutte e lui ubbidì, al Vate non si chiedeva mai il perché e il percome. Si mise con le spalle appoggiate contro il muro ad ascoltare le sue istruzioni.

Si sentiva già meglio, potenza del Vate.
Allora, attenti a me: Spuma e Portugal per un quarto d’ora belli coperti, sganciarsi in avanti con giudizio che loro ci hanno il Coltello e il Biscia che possono colpire a freddo. Gambatesa come sempre, giù botte argute, senza pietà e senza coglionaggine. Pilone, non stare troppo alto, piuttosto rischiamo qualcosa di più ma non voglio vederli andare in porta in solitaria, davanti hanno il Celeberrimo, che ha quasi la mia età ma è più furbo di tutti voi messi insieme, ok? Oriundo, oggi ho bisogno del tuo cervello, pensa calcio e anticipa, falla correre e progetta poche incursioni mirate: voglio che siano devastanti. Sponda, giocala corta come sai, taglia e cuci, non fermare mai la corsa, ti voglio aerobico, non partire forte, proteggi il fiato per il finale. Agli ultimi tre il Vate non diceva mai niente, Mistero era tutt’uno con il suo nome. Poteva fare cose di bellezza luccicante oppure infilare una prestazione da dilettante sovrappeso.
Per Vadasè il discorso era il medesimo, stessa aderenza semantica.
Idem per l’Uomosquadra, al fuoriclasse non si dice mai come deve giocare.

[Armando Barabino]
Entrarono in campo, l’Uomosquadra si era dimenticato di allacciarsi la fascia di capitano, ci pensò Portugal, che non riusciva a stare fermo.
Dagli spalti gremiti arrivavano cori e incitazioni, la giornata era bella e il terreno in perfette condizioni, la temperatura un po’ alta per la stagione, con un accenno di afa, ma allo stomaco dell’Uomosquadra quel giorno andava bene così.

Il primo tempo fu una noia mortale, le squadre si temevano e ad eccezione di un paio di tiri telefonati per parte non successe nulla, se non una mezza zuffa per via di un pestone che Gambatesa picchiò sulla tibia del Mostro, il diretto rivale dell’Uomosquadra, il numero dieci avversario.

Nel secondo tempo la musica cambiò, il Guru, l’allenatore dell’altra squadra, tolse dal campo l’irriconoscibile Ragionpura e inserì Mangusta, un’ala sinistra velenosa. Ma il Vate rispose subito e dopo dieci minuti tolse dal campo Spuma e al suo posto entrò in campo Circolare, che era meno appariscente di Gambatesa, ma non meno bieco. Alla mezz’ora successe il patatrac: su un corner battuto corto il Biscia deviò di testa e il Coltello infilò la rete dell’1 a 0 alle spalle di un incolpevole Levatoio.

L’Uomosquadra si nascose nella mischia dei giocatori che erano rimasti in area e vomitò proprio all’altezza del dischetto: dopo nemmeno un minuto si sentiva un leone.

Il cielo si era riempito di nuvole minacciose e il vento soffiava sempre più forte, la temperatura era scesa di quasi dieci gradi.
L’Uomosquadra ventilava fuori e dentro di sé una voglia bestiale di uscire dal campo vincente con la foia di un ragazzino che non vede l’ora di scendere nel prato a giocare a pallone.
A cinque minuti dalla fine scambiò con Oriundo, che si defilò sulla destra. Avanzò una decina di metri, Mistero e Vadasè si portarono via i difensori avversari e Oriundo piantò lo scatto della vita.
L’Uomosquadra stoccò un tracciante di mezzocollo rasoterra con i giri calibrati al millimetro e l’Oriundo si ritrovò solo davanti al Prevosto, il portiere avversario famoso per giocare tutta la partita recitando il rosario. Lo infilò con un tocco di esterno a palombella, eludendo la sua uscita.
Il pubblico riprese l’energia che sembrava sopita e cominciò a martellare le tempie degli avversari che nel secondo tempo avevano speso più di quello che avevano. Arrivò un temporale fortissimo. In due minuti il campo si era trasformato in una specie di palude. Allo scadere l’arbitro decise che i minuti di recupero sarebbero stati cinque, la partita era stata spigolosa e il gioco si era fermato parecchie volte.
Il Prevosto riuscì a fare due miracoli, uno sul Mistero che, ricevuta la palla da Sponda spalle alla porta, si inventò una girata contro tutte le leggi della fisica. L’altro su una botta al volo di Vadasè, imbeccato da un lancio di quaranta metri dell’Uomosquadra. La palla doveva correre alta, il campo pesante non consentiva di giocare rasoterra.
Mancavano trenta secondi al fischio finale, quando l’Uomosquadra rubò palla al Mostro, che più di lui soffriva la palta. Riuscì a scucchiaiare un pallone sulla sinistra, che si arenò nell’acquitrino a metà strada tra il loro Tailleur, un terzino francese tutto tocchi fioriti, e il Portugal che stava arrivando come un merci sparato sui fiordi. Il Portugal piombò sul pallone con l’anticipo di un alluce, e riuscì a portarlo sul fondo.
Il Mistero e il Vadasè erano marcati stretti, i loro centrocampisti si sfiancarono per coprire l’incursione dell’Oriundo, che si era inserito dalle retrovie.

Nessuno si accorse che l’Uomosquadra era solo al limite dell’area.
La palla del Portugal arrivò a mezz’altezza, madida d’acqua.

[Gerardo Dottori]

L’impatto fu morbido e violento, come un diretto destro alla quindicesima ripresa, uno sberlone che liberò il cuoio dal sudore per conficcarsi a una spanna dal palo, alla sinistra del Prevosto, come l’ogiva di un proiettile in una traiettoria discendente, un declivio baciato dagli dei tutti. Lo stadio esplose. L’Uomosquadra fu portato in trionfo.

Negli spogliatoi c’era un’atmosfera elettrica, era stata una partita memorabile. Nel fermento il Vate abbracciò anche un vigile e quando arrivò davanti a lui gli prese la testa tra le mani, tirò un respiro e distese i muscoli facciali in un’espressione seria; disse solo una parola: pensaci.
Ma lui aveva già pensato, sarebbe rimasto.
Lo SciaMano entrò nello spogliatoio con un vassoio gigante di tortelli e chiacchiere, e una magnum di spumante.
L’Uomosquadra fu colpito da un transfer gastrico, si spogliò di tutta fretta e si infilò in doccia, senza rispondere agli inviti dei compagni di squadra.
Il Pilone gli portò un tortello e un bicchiere di spumante sotto la doccia e siccome il suo amico stava lì ad aspettare il cincin, lo bevve mescolato con l’acqua e la schiuma dello shampoo, mentre il Pilone lo guardava esterrefatto. Poi ingoiò il tortello, che era buonissimo anche con un po’ di acqua e sapone.
Si guardarono negli occhi mentre gli restituiva il bicchiere: Uomosquadra, vero che non te ne vai, che resti con noi? Vero?

[Pubblicato su Quasi Rete in data 11 febbraio 2012, e qui riproposto con il consenso dell'autore]

Il centromediano Carlo Emilio Gadda

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Centromediano metodista arretrato di impostazione classica. Laureato al Politecnico di Milano e per questo soprannominato l'“ingegnere”, al tempo era uno dei tre laureati del calcio italiano insieme ad Annibale Frossi, il “dottor sottile” e Fulvio Bernardini, il “dottor pedata”.

Ruminatore di calcio dalla tecnica sopraffina, ma di una lentezza a volte esasperante. Praticamente giocava in un metro quadrato. Il fisico precocemente pingue in questo non lo aiutava. Ai suoi esordi gli sguardi severi della madre dalla tribuna hanno condizionato per sempre la sua evoluzione di giocatore e hanno fatto di Gadda un eccentrico pachiderma prestato al calcio.

Entrava in campo malmostoso, si piazzava al centro della difesa e non si muoveva più. In tutta la sua lunga carriera non ha mai superato la linea mediana del campo. Le rare volte che si avventurava fuori dalla propria area di rigore guardava circospetto i compagni di squadra chiedendo a tutti “rischierò qualcosa?”. Sulle fasce laterali poi non andava mai, terrorizzato dalle bandierine del calcio d’angolo verso le quali nutriva un’autentica fobia.

Quando però entrava in possesso del pallone sciorinava tutta una serie di preziosismi di scuola sudamericana, sfoggiando tocchi, tocchetti, finte, controfinte, doppi e tripli passi, effetti strani e ghirigori da autentico virtuoso che ubriacavano gli avversari.

Professionista esemplare, rifuggiva come la peste la compagnia femminile e durante i festeggiamenti per qualche vittoria della squadra se ne stava seduto in disparte.

Formatosi calcisticamente in Lombardia, ha concluso la carriera a Roma dalle parti di via Merulana.

(2012)

Esse est percipi

di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares

Vecchio frequentatore delle parti di Nuñez e dintorni, non mancai di notare che mancava dal suo posto di sempre il monumentale stadio del River. Costernato, consultai al riguardo il mio amico dottor Gervasio Montenegro, membro effettivo dell’Accademia Argentina delle Lettere. In lui trovai quella spinta capace di indirizzarmi. A quei tempi la sua penna compilava una sorta di Storia panoramica del giornalismo nazionale, opera altamente meritevole, nella quale si affannava la sua segretaria. La relativa documentazione lo aveva casualmente condotto a subodorare il busillis. Poco prima di addormentarsi completamente, mi mandò da un comune amico, Tulio Savastano, presidente del club Abasto Juniors, alla cui sede, situata nel Palazzo Amianto, di avenida Corrientes e Pasteur, mi recai. Il dirigente, nonostante il regime di doppia dieta a cui lo sottoponeva il suo medico e vicino dottor Narbondo, si mostrava ancora agile e scattante. Alquanto inorgoglito per l’ultimo trionfo della sua squadra contro la compagine canarina, si lasciò andare a confidarmi, tra un mate e l’altro, ghiotti particolari inerenti alla questione sul tappeto. Benché io mi ripetessi che Savastano era stato un tempo il mio compagno di ragazzate di Agüero angolo Humahuaca, l’importanza del suo incarico mi intimoriva e, per allentare la tensione, mi congratulai per lo svolgimento dell’azione dell’ultimo goal che, nonostante l’intervento di Zarlenga e Parodi, il centro mediano Renovales aveva realizzato, grazie allo storico passaggio di Musante.

Sensibile alla mia adesione all'undici di Abasto, il grand'uomo diede un ultimo tiro alla cannuccia esaurita del mate, dicendo filosoficamente, come chi sogna ad alta voce:
- E pensare che sono stato io ad inventare questi nomi.
- Vale a dire? – domandai gemendo – Musante non si chiama Musante? Renovales non è Renovales? Limardo non è il vero nome dell’idolo acclamato dalla tifoseria?
La risposta mi fiaccò nelle membra.
- Come? Lei crede ancora nella tifoseria e negli idoli? Ma dove ha vissuto, don Domecq?
In quella entrò un fattorino che sembrava un pompiere e mormorò che Ferrabás voleva parlare con lui.
- Ferrabás, il cronista dalla voce pastosa? – esclamai – L’animatore dei cordiali dopopranzo delle 13 e 15 del sapone Profumo? Questi miei occhi lo vedranno così com'è? Davvero si chiama Ferrabás?
- Che aspetti! - ordinò il signor Savastano.
- Che aspetti? Non sarebbe più prudente che io mi sacrifichi e me ne vada? – aggiunsi con sincera abnegazione.
- Neanche per idea – rispose Savastano –. Arturo, dica a Ferrabás che entri. Fa nulla…

Ferrabás entrò con naturalezza. Stavo per cedergli la mia poltrona, ma Arturo, il pompiere, mi dissuase con una di quelle occhiatine che sono come uno sbuffo di aria polare. La voce presidenziale sentenziò:
- Ferrabás, ho già parlato con De Filipo e Camargo. Nella prossima giornata l’Abasto perde, per due a uno. Il gioco sarà duro, ma non ricada, se lo ricordi bene, nel passaggio di Musante a Renovales, che la gente conosce a memoria. Io esigo immaginazione, immaginazione. Capito? Può andare.
Raccolsi le forze per azzardare la domanda:
- Devo dedurre che il risultato è scritto a tavolino?
Savastano, letteralmente, mi gettò nella polvere.
- Non c’è risultato, né formazioni, né partite. Gli stadi sono già demolendi che cadono a pezzi. Oggi tutto passa per la televisione e la radio. La falsa eccitazione dei commentatori, non le è mai venuto il sospetto che fosse tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio si è giocata qui nella capitale il 24 giugno del ’37. Da quel preciso momento, il calcio, proprio come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, a carico di un solo uomo in una cabina o di attori in maglietta davanti ad un cameraman.

- Signore, ma chi ha inventato tutto ciò? Riuscii a domandare.
- Nessuno lo sa. Tanto varrebbe cercare di scoprire a chi è venuta per primo l’idea della inaugurazione delle scuole o delle visite fastose di teste coronate. Sono cose che non esistono fuori degli studi di registrazione e delle redazioni. Si convinca, Domecq, la propaganda di massa è il marchio dei tempi moderni.
- E la conquista dello spazio? – gemetti.
- E’ un programma straniero, una coproduzione russo-americana. Un lodevole passo avanti, non neghiamocelo, dello spettacolo scientista.
- Presidente, lei mi mette paura – farfugliai, senza rispettare la via gerarchica -. Quindi al mondo… non succede nulla?
- Ben poco - rispose con la sua flemma inglese -. Ciò che non afferro è la sua paura. Il genere umano se ne sta in casa, spaparanzato, attento allo schermo o al commentatore, se non alla stampa scandalistica. Cosa vuole di più, Domecq? E’ il cammino gigantesco dei secoli, il ritmo del progresso che si impone.
- E se si rompe l’illusione? - dissi con un filo di voce.
- Ma cosa deve rompersi … - mi tranquillizzò.
- E se anche fosse, sarei una tomba – gli promisi -. Lo giuro per la mia passione personale, per la mia lealtà alla squadra, per lei, per Limardo, per Renovales.
- Dica quello che le pare, nessuno le crederebbe.

Squillò il telefono. Il presidente portò la cornetta all'orecchio, e con la mano libera mi indicò l’uscita.

Dalle Cronache di Bustos Domecq (1967) | Testo originale in spagnolo | Il volume

Il record di "Giott" Subinaghi

Calcio di oggi calcio di ieri
di Andrea Maietti

Otello Giott Subinaghi: chi era costui? Un sùmes di centravanti (alto 1.64) che varrebbe un romanzo. Otello Giott Subinaghi giocò nella Roma del Testaccio dal 1935 al 1940. Il destino lo fece nascere ai tempi di Piola e Meazza: più tecnico del primo che lo sovrastava in possa e altezza; più dinamico del secondo, che non aveva eguali al mondo come peintre de futbol. Veniva dal Fanfulla di Lodi. E fu all’osteria della Dossenina che fu ribattezzato Giott, perché ogni sua mossa era, come per i milanesi dell’Arena ogni mossa di Peppino Meazza, una pennellata d’autore. Esordì a 15 anni, come oggi non potrebbe nessuno, tanto giovane e tanto nano. Giott batteva indifferentemente con i due piedi, aveva scatto bruciante, dribbling da sudamericano, e colpo di testa di arguzia spesso irridente.

Lo storico Stadio "Luigi Majno" di Gallarate (Varese)
Ho fatto in tempo a incontrarlo vispo settantenne, subito dopo il Mundial di Spagna 82. Si sentiva un poco rivivere nelle prodezze di Pablito Rossi, conservava non più di un filo di rammarico per essere stato sempre chiuso in Nazionale dai due fenomeni di cui sopra. «Ho consumato la mia piccola vendetta – mi disse - nel campionato 1938-39, contro il Torino del grande Olivieri, che era fresco campione del mondo. Presi palla a centro campo e scattai sulla fascia destra, saltando il mediano. Puntai al centro, e chiesi triangolo alla mia mezzala Coscia. Entrato in area, saltai il terzino Brambilla, allargandomi a sinistra. Nel frattempo avevo studiato il piazzamento di Olivieri. Quando mi accorsi che si stava spostando sul palo destro, sparai il sinistro nell'angolo opposto. Vincemmo 1-0. Hai segnato perché hai sbagliato, mi disse Olivieri. Al ritorno a Roma, lo anticipai di testa in uscita. Fu il gol della nostra vittoria per 2-1». 

Giott era troppo lodigiano per fare più di un cenno ai nove gol segnati in una sola partita: «Sèri vècc, urmai, e giüghèvi nella Gallaratese in serie C». Tempo di guerra, 1943. Era un’uggiosa domenica allo stadio di Gallarate. Ospite la Caratese. Sparuti spettatori intirizziti a guardare quella che poteva anche essere davvero l’ultima gara. Gli anni avevano tolto ad Otello lo smalto del pennello. A un certo punto della partita, mentre trottignava senza costrutto lontano dall'area, sentì distintamente uno spettatore dalla tribunetta svaporante nella nebbia: Otello, va’ a ca’, che la Desdemona la ta met i corni! Mancava non più di mezzora alla fine. Otello diede la voce alla sua aletta, che era giovane e in soggezione. Una dozzina di volte si affannò per andare sul fondo e crossare alla come viene. Per nove volte Otello, tornato per l’ultima volta Giott , trasformò in gol. Niente T.V. ai quei bei dì. Il romanzo di quella partita e di quei nove gol è tutto ancora da raccontare.
(2014)