Chiacchiere e tortelli

di Claudio Sanfilippo

[Giulio D'Anna]
L’Uomosquadra aveva festeggiato fino a tarda notte coi parenti ai quali non aveva potuto dire di no, erano venuti apposta da Lodi e sua madre ci teneva. Avrebbe giocato nello Squadrone, che se l’era assicurato dopo intense trattative senza esclusione di colpi bassi, anche se mancava la ratifica decisiva della sua firma. 
L’Uomosquadra aveva perso suo padre in guerra e per festeggiare ci voleva almeno uno zio, così almeno pensava sua madre. Ma l’Uomosquadra sapeva che il giorno dopo avrebbe dovuto piantare il tecnigrafo dalle parti del centrocampo per architettare qualcosa che confermasse la bontà della scelta agli occhi dello Squadrone, che stava per sborsare una certa cifra. A parte il vino troppo frizzante e le filzette, a parte l’insalata russa e la cassoeula, bisogna calcolare che era tempo di Carnevale e sua madre aveva passato tutto il pomeriggio a friggere chiacchiere e tortelli. Tutto questo, pensava l’Uomosquadra mentre divorava tutte quelle squisitezze fritte nell’olio, non andava d’accordo col suo mestiere, ma soprattutto col suo ruolo di uomo-squadra. Si presentò al campo di gioco con la cera color mal di macchina, si infilò nello spogliatoio senza guardare in faccia nessuno, disorientando gli addetti ai lavori perché l’Uomosquadra era solitamente loquace e disponibile con tutti, al punto che qualche giorno prima aveva firmato quattro autografi a una maschera del cinema Plinius a spettacolo in corso, alla luce della torcia uso-scalini. L’Uomosquadra prese posto sulla sua panca, buttò la borsa a un metro dai piedi e prese la testa tra le mani.
I suoi compagni si stavano cambiando, il Cursore era già sul lettino dei massaggi a farsi sciogliere i muscoli dallo SciaMano, un ex-camallo che si rifece una vita per via della mano destra, baciata dal dono e più grande della sinistra di qualche tacca. Accanto a lui sedeva Sponda, maestro dell’uno-due, col quale dialogava spesso e volentieri in campo, nella vita meno perché era affetto da balbuzie acuta. Dai finestroni che davano all’esterno giungeva il rumore dei tifosi che stavano entrando nello stadio, i passi, le voci, i cori.
L’Uomosquadra stava per vomitare ma non poteva permetterselo, il Vate sapeva che quella poteva essere l’ultima stracittadina che avrebbe giocato con quella maglia e aspettava il suo colpo di reni, una di quelle traiettorie filanti per la stoccata del Mistero, l’unico centravanti tarchiato che riusciva a sembrare dinoccolato, col suo sinistro arrotato che somigliava a un jab da peso welter. L’Uomosquadra incrociò lo sguardo con il Pilone, il suo amico d’infanzia che a tredici anni era già uno e novantacinque, come adesso. Il Pilone inclinò la testa in un sorriso disperato alla Primo Carnera come per dire “tutto a posto vero?” ma l’Uomosquadra riuscì solo a strabuzzare gli occhi in una specie di splendore angosciato.
Evocò il soccorso di un qualsiasi desiderio erotico, qualcosa che potesse saltare dentro lo stomaco e miracolare la nausea: pensò alla Coscia, nel senso del tratto compreso tra l’anca e il ginocchio, appena svestita da una gonna leggera. La Coscia era la condanna soave del suo mondo erotico, perfino nel pieno di un atto sessuale l’Uomosquadra sentiva il dovere di concentrare il suo arrapamento su quella che ormai riteneva una specie di entità superiore ad uso delle sue fantasie.

Il Vate cominciò la chiama degli undici che sarebbero scesi in campo quel giorno, dal portiere alla seconda punta: Levatoio, Spuma, Portugal, Gambatesa, Pilone, Oriundo, Cursore, Sponda, Mistero, Uomosquadra, Vadasè.
Il Vate chiamò l’Uomosquadra da parte e gli mise in mano una scatola di mentine, gli ordinò di mangiarle tutte e lui ubbidì, al Vate non si chiedeva mai il perché e il percome. Si mise con le spalle appoggiate contro il muro ad ascoltare le sue istruzioni.

Si sentiva già meglio, potenza del Vate.
Allora, attenti a me: Spuma e Portugal per un quarto d’ora belli coperti, sganciarsi in avanti con giudizio che loro ci hanno il Coltello e il Biscia che possono colpire a freddo. Gambatesa come sempre, giù botte argute, senza pietà e senza coglionaggine. Pilone, non stare troppo alto, piuttosto rischiamo qualcosa di più ma non voglio vederli andare in porta in solitaria, davanti hanno il Celeberrimo, che ha quasi la mia età ma è più furbo di tutti voi messi insieme, ok? Oriundo, oggi ho bisogno del tuo cervello, pensa calcio e anticipa, falla correre e progetta poche incursioni mirate: voglio che siano devastanti. Sponda, giocala corta come sai, taglia e cuci, non fermare mai la corsa, ti voglio aerobico, non partire forte, proteggi il fiato per il finale. Agli ultimi tre il Vate non diceva mai niente, Mistero era tutt’uno con il suo nome. Poteva fare cose di bellezza luccicante oppure infilare una prestazione da dilettante sovrappeso.
Per Vadasè il discorso era il medesimo, stessa aderenza semantica.
Idem per l’Uomosquadra, al fuoriclasse non si dice mai come deve giocare.

[Armando Barabino]
Entrarono in campo, l’Uomosquadra si era dimenticato di allacciarsi la fascia di capitano, ci pensò Portugal, che non riusciva a stare fermo.
Dagli spalti gremiti arrivavano cori e incitazioni, la giornata era bella e il terreno in perfette condizioni, la temperatura un po’ alta per la stagione, con un accenno di afa, ma allo stomaco dell’Uomosquadra quel giorno andava bene così.

Il primo tempo fu una noia mortale, le squadre si temevano e ad eccezione di un paio di tiri telefonati per parte non successe nulla, se non una mezza zuffa per via di un pestone che Gambatesa picchiò sulla tibia del Mostro, il diretto rivale dell’Uomosquadra, il numero dieci avversario.

Nel secondo tempo la musica cambiò, il Guru, l’allenatore dell’altra squadra, tolse dal campo l’irriconoscibile Ragionpura e inserì Mangusta, un’ala sinistra velenosa. Ma il Vate rispose subito e dopo dieci minuti tolse dal campo Spuma e al suo posto entrò in campo Circolare, che era meno appariscente di Gambatesa, ma non meno bieco. Alla mezz’ora successe il patatrac: su un corner battuto corto il Biscia deviò di testa e il Coltello infilò la rete dell’1 a 0 alle spalle di un incolpevole Levatoio.

L’Uomosquadra si nascose nella mischia dei giocatori che erano rimasti in area e vomitò proprio all’altezza del dischetto: dopo nemmeno un minuto si sentiva un leone.

Il cielo si era riempito di nuvole minacciose e il vento soffiava sempre più forte, la temperatura era scesa di quasi dieci gradi.
L’Uomosquadra ventilava fuori e dentro di sé una voglia bestiale di uscire dal campo vincente con la foia di un ragazzino che non vede l’ora di scendere nel prato a giocare a pallone.
A cinque minuti dalla fine scambiò con Oriundo, che si defilò sulla destra. Avanzò una decina di metri, Mistero e Vadasè si portarono via i difensori avversari e Oriundo piantò lo scatto della vita.
L’Uomosquadra stoccò un tracciante di mezzocollo rasoterra con i giri calibrati al millimetro e l’Oriundo si ritrovò solo davanti al Prevosto, il portiere avversario famoso per giocare tutta la partita recitando il rosario. Lo infilò con un tocco di esterno a palombella, eludendo la sua uscita.
Il pubblico riprese l’energia che sembrava sopita e cominciò a martellare le tempie degli avversari che nel secondo tempo avevano speso più di quello che avevano. Arrivò un temporale fortissimo. In due minuti il campo si era trasformato in una specie di palude. Allo scadere l’arbitro decise che i minuti di recupero sarebbero stati cinque, la partita era stata spigolosa e il gioco si era fermato parecchie volte.
Il Prevosto riuscì a fare due miracoli, uno sul Mistero che, ricevuta la palla da Sponda spalle alla porta, si inventò una girata contro tutte le leggi della fisica. L’altro su una botta al volo di Vadasè, imbeccato da un lancio di quaranta metri dell’Uomosquadra. La palla doveva correre alta, il campo pesante non consentiva di giocare rasoterra.
Mancavano trenta secondi al fischio finale, quando l’Uomosquadra rubò palla al Mostro, che più di lui soffriva la palta. Riuscì a scucchiaiare un pallone sulla sinistra, che si arenò nell’acquitrino a metà strada tra il loro Tailleur, un terzino francese tutto tocchi fioriti, e il Portugal che stava arrivando come un merci sparato sui fiordi. Il Portugal piombò sul pallone con l’anticipo di un alluce, e riuscì a portarlo sul fondo.
Il Mistero e il Vadasè erano marcati stretti, i loro centrocampisti si sfiancarono per coprire l’incursione dell’Oriundo, che si era inserito dalle retrovie.

Nessuno si accorse che l’Uomosquadra era solo al limite dell’area.
La palla del Portugal arrivò a mezz’altezza, madida d’acqua.

[Gerardo Dottori]

L’impatto fu morbido e violento, come un diretto destro alla quindicesima ripresa, uno sberlone che liberò il cuoio dal sudore per conficcarsi a una spanna dal palo, alla sinistra del Prevosto, come l’ogiva di un proiettile in una traiettoria discendente, un declivio baciato dagli dei tutti. Lo stadio esplose. L’Uomosquadra fu portato in trionfo.

Negli spogliatoi c’era un’atmosfera elettrica, era stata una partita memorabile. Nel fermento il Vate abbracciò anche un vigile e quando arrivò davanti a lui gli prese la testa tra le mani, tirò un respiro e distese i muscoli facciali in un’espressione seria; disse solo una parola: pensaci.
Ma lui aveva già pensato, sarebbe rimasto.
Lo SciaMano entrò nello spogliatoio con un vassoio gigante di tortelli e chiacchiere, e una magnum di spumante.
L’Uomosquadra fu colpito da un transfer gastrico, si spogliò di tutta fretta e si infilò in doccia, senza rispondere agli inviti dei compagni di squadra.
Il Pilone gli portò un tortello e un bicchiere di spumante sotto la doccia e siccome il suo amico stava lì ad aspettare il cincin, lo bevve mescolato con l’acqua e la schiuma dello shampoo, mentre il Pilone lo guardava esterrefatto. Poi ingoiò il tortello, che era buonissimo anche con un po’ di acqua e sapone.
Si guardarono negli occhi mentre gli restituiva il bicchiere: Uomosquadra, vero che non te ne vai, che resti con noi? Vero?

[Pubblicato su Quasi Rete in data 11 febbraio 2012, e qui riproposto con il consenso dell'autore]