La poetica del catenaccio

di Massimo Raffaeli

Com’è che Brera è diventato Brera nel senso comune degli appassionati di calcio? Certamente per alcune sue punte polemiche che nei primi anni sessanta già tralignavano dalla carta stampata alla televisione con la comparsa di un epiteto, “abatino”, che egli aveva affibbiato, in un primo momento, e in accezione positiva, all’olimpionico duecentometrista Livio Berruti e ad Antonio Valentìn Angelillo, poi ad altri calciatori che vedeva con sgomento annaspare in ciò che pure definiva il “mare magno” del centrocampo (giocatori di nitido stile ma di scarso nerbo) quali Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli e, ovviamente Gianni Rivera, nome proverbiale degli anni del boom, la cui eleganza corrispondeva per gli appassionati al segno di un paese redivivo, finalmente moderno, avvenente, e persino à la page: il suo, di Brera, era un empito di odio/amore che non sarebbe mai venuto meno anche se col tempo si sarebbe tramutato in una vera e propria parte in commedia e pertanto inderogabile.

Tuttavia, la polemica su Rivera e con Rivera stesso alla lunga si sarebbe rivelata la diversione necessariamente esagerata di un conflitto più antico e profondo, tale da mettere in questione l’analisi della partita di calcio e, a ben guardare, tanto il fondamento primordiale del gioco quanto lo sguardo portato su di esso. In effetti, chi leggeva Brera sulle colonne del “Giorno” o sul lenzuolo verde del “Guerin Sportivo”, fra gli anni sessanta e settanta, che consentisse o meno con l’oltranza sempre ribadita delle tesi, che fosse intrigato o respinto da una peculiarità linguistico-stilistica che non aveva eguali, comunque era costretto a convenire di trovarsi al cospetto di un critico nell’accezione letterale del termine. Se “critica” vuol dire, per etimologia, prima “distinguere” e poi “valutare” e “giudicare”, le sue pagine ne erano la più compiuta testimonianza: che poi presentassero una lingua e uno stile così riconoscibili (così originali da condannare al ridicolo di una involontaria parodia chiunque volesse imitarlo), questo lo smarcava dalla totalità dei colleghi e gli garantiva la fisionomia di un pioniere, l’unicità del fondatore di una disciplina. (Dunque la polemica con Rivera era nient’altro che il precipitato di una teoria o anche un’esca per moltiplicare la tiratura, era il momento ideologico e propagandistico di una posizione critica e teorica altrimenti fondata). Quando leggevamo Brera domandandoci invano il perché della sua unicità (intrigati o sviati dalla celebre massima di “Gadda spiegato al popolo” con cui volle liquidarlo un grande semiologo e massimo scrittore di intrattenimento, in Italia) non coglievamo il fatto che non esistevano ancora, da noi, dei critici di calcio che tali potessero chiamarsi. C’erano degli intenditori (per esempio Giglio Panza, Emilio Violanti, Renato Morino, Maurizio Barendson), degli ex sportivi riconvertiti al giornalismo (prima Vittorio Pozzo su “La Stampa”, poi Annibale Frossi sul “Corriere della Sera”), c’erano degli analisti in via di formazione (per esempio gli allora giovanissimi Gian Paolo Ormezzano, Giorgio Tosatti, Gianfranco Civolani), c’erano degli esteti come Carlo Bergoglio detto Carlin o degli ereditieri del dannunziano Bruno Roghi come Vladimiro Caminiti, c’erano addirittura degli storici (nientemeno Antonio Ghirelli, la cui prima edizione della Storia del calcio in Italia esce da Einaudi nel ’54) o degli scrittori chiamati a occuparsi di calcio a tempo pieno come Giovanni Arpino o, saltuariamente, come Mario Soldati, Luciano Bianciardi, Manlio Cancogni, Salvatore Bruno e Oreste del Buono. Ma qualcuno che sapesse recensire e valutare la partita di calcio come usavano, per altra via, i critici militanti della letteratura ancora in Italia non si era presentato. Nel senso comune, precisatosi soltanto nel lungo periodo, Brera è infine questo, un critico militante e insieme un teorico del gioco. Egli è il referente e complice ma anche il beneficiario della couche di critici sportivi che si vengono formando sulle pagine del “Giorno” allora dirette da Pilade del Buono: per stare ai fuoriclasse, Mario Fossati per il ciclismo, Gianni Clerici per il tennis, Giulio Signori per la boxe, senza ignorare le seconde linee calcistiche a nome Mino Mulinacci, Gian Maria Gazzaniga, Gian Mario Maletto, Beppe Maseri, Piero Dardanello e Mario Pennacchia che rimane, con la grande impresa di Il calcio in Italia (1999) forse il massimo cronografo-annalista di questo sport.

Su come lavorava Brera e su Brera allo stadio esiste una aneddotica ricchissima: primi rilievi stesi in tribuna stampa e prime “seriazioni statistiche”, come le chiamava, affidate al taccuino (uno per ogni gara, e pare ne siano residuati a centinaia), poi la corsa a casa o in albergo per la stesura dell’articolo con relative pagelle, di seguito la dettatura a ritmi implacabili ma godendo del privilegio (un privilegio forse unico nella storia del giornalismo italiano) di scegliere anche titolo, occhiello e sommario. (Per i libri teorici e divulgativi, o insomma per le pubblicazioni più impegnative, utilizzava i periodi di vacanza ma il ritmo produttivo rimaneva febbrile: del resto la sua intera produzione scritta assomiglia al cosmo copernicano, dove il centro è dappertutto e i confini da nessuna parte. Ciò complicherà il lavoro dei filologi a venire e però favorisce paradossalmente i prelievi più casuali, ad apertura di pagina, dalla sua sterminata produzione). Ma al di là della procedura, in che cosa consiste il suo metodo e quali ne sono i punti di riferimento? La partita, cioè il singolo incontro osservato e recensito, è il punctum cui si arriva per cerchi concentrici. Il cerchio esterno coincide con la storia patria e il nesso di storia-geografia che divide l’Italia con linea del Po. Nel cerchio ulteriore (che discrimina l’Italia del burro portato da Alboino dall’Italia dell’olio o anche l’Italia dei venti freddi e continentali dall’Italia dello scirocco e dei venti africani) sono già evidenti alcuni suoi stereotipi fondamentali: per ragioni di clima e di etnos il calcio è un fenomeno elettivamente cisalpino o padano e invece inadatto al clima mediterraneo; i grandi campioni (come testimoniano gli indici dell’atletica leggera, la disciplina di base da lui prediletta agli esordi) non possono che prosperare o latitare in relazione agli indici climatici ed etnico-storici. Da tali convinzioni (dove si mescolano tanto l’amore per la Lombardia che gli detta alcune tra le sue pagine più belle, specie di storia enogastronomica, quanto la apologia della cosiddetta Padania le cui venature xenofobe saranno purtroppo sfruttate da alcuni suoi postumi zelatori in camicia verde), egli viene deducendo una serie di antefatti decisivi: la natura tarda e composita della unificazione italiana; la concomitanza di zone climatiche diametrali; una pratica del gioco a lungo riservata alle fasce di media e piccola borghesia con l’esclusione del proletariato, specie meridionale; il persistere, nel movimento calcistico, dell’ipoteca coloniale (a partire dagli inglesi), l’assenza di una cultura specifica e la conseguente latitanza di una vera e propria scuola nazionale. Dalla progressiva consapevolezza di simili manques, dallo stato di miseria in cui nasce ed evolve in Italia il gioco del calcio, Brera deduce uno sguardo e mette a punto un metodo critico che, stante la natura composita e persino coacervica del fenomeno, non può che avvalersi di una scrittura sperimentale, mescidata e reinventata a oltranza.

Nel cerchio minore e oramai in prossimità del punctum, si delineano altre e allarmanti evidenze: in Italia, paese giovane e povero, poverissimo di atleti, fra quei pochi eccellono gli scattisti (nel calcio, attaccanti e difensori) mentre mancano i fondisti, vale a dire i centrocampisti che o sono rozzi e negati alla costruzione del gioco o sono splendidi stilisti e però renitenti alla corsa e ai recuperi, proprio come l’abatino Rivera. Brera non ha potuto assistervi ma l’albo d’oro gli dice che due Mondiali sono stati vinti dagli azzurri di Pozzo, nel ’34 e nel ’38, con la squadra disposta a W (o Metodo) e che viceversa, con la squadra disposta a WM (o Sistema, all’inglese) invalso nel secondo dopoguerra, il Grande Torino in maglia azzurra ha potuto essere umiliato dai britannici a casa sua e per 4 a O. Non è un caso che da giovane direttore della “Gazzetta”, pure sospettoso di qualunque nazionalismo, Brera metta a punto il suo metodo nel periodo di maggiore decadenza della nazionale, eliminata ai mondiali brasiliani del ’50 come a quelli svizzeri del ’54 e addirittura esclusa, per non essersi qualificata, da Stoccolma 1958. È qui, per usare il titolo di un grande storiografo, che Brera “inventa” la tradizione calcistica italiana senza la quale non sussisterebbe la sua stessa produzione di critico. È possibile darne il sommario ricorrendo al testo più compiuto della sua bibliografia tecnica, la Storia critica del calcio italiano (1975 e 1978), un’opera a tesi, dichiaratamente militante che, per testimonianza dell’autore, avrebbe dovuto brerianamente intitolarsi Storia critica della pedata italica. Lo sguardo non è equanime né potrebbe esserlo, visto che il decorso corrisponde a una trafila di momenti topici che tutti preludono o contrastano l’avvento del cosiddetto gioco all’italiana, il modulo sintetizzabile con la sua antonomasia di “catenaccio”. Qui, va subito aggiunto, il gesto critico descrittivo si traduce costantemente in rilievi chiaramente prescrittivi: ciò vuol dire che la critica, per Brera, non può mai prodursi senza l’avallo di una poetica.

Il calcio all’italiana per Brera, a partire dai primi anni cinquanta, si fonda su alcuni assiomi storicamente testati: a) la eversione del WM, troppo atleticamente dispendioso nonché tatticamente ingenuo, con il ritorno al Metodo degli anni trenta, cioè al doppio terzino d’area (uno stopper e un altro difensore “libero da impegni di marcatura” o più semplicemente “libero”, suo neologismo presto adottato a livello internazionale: costui è l’uomo che impedisce agli attaccanti avversari di andare immediatamente a rete una volta superato il rispettivo marcatore; b) il mantenimento della equidistanza fra i reparti della squadra, mai derogabile anche nelle situazioni di svantaggio (laddove Brera arriva a parlare di apparente “difesa della sconfitta”), che induce gli avversari a squilibrarsi e quindi a esporsi a letali rovesciamenti di fronte; c) il sillogismo deducibile da a) e b): difesa chiusa e contropiede, lo schema universale che se da un lato non va confuso con le barricate o le volgari ammucchiate dall’altro permette sia di saltare il centrocampo (specie alle squadre italiane, deficitarie in quella zona) sia di esaltare la agilità delle punte. Come dirà tante volte, questa è la risorsa di Davide contro Golia, la trovata di Bertoldo che non riesce a scegliere l’albero cui impiccarsi o, in una parola sola, questa è la metafisica dei poveri che sanno di esserlo. Neanche a dirlo, in tribuna stampa e fra il popolo grande dei lettori, molti nuovi ricchi se ne adontano inneggiando al “bel gioco” o comunque a un gioco alla pari con le scuole calcistiche più longeve e dal vivaio più ricco di atleti: Brera li iscrive tutti quanti d’ufficio alla scuola “napoletana” il cui esponente più pregiato è il suo antipode umano e professionale di sempre, Gino Palumbo, peraltro suo successore e ostinato eversore in “Gazzetta” (dove l’unico breriano resistente sarà per molto tempo Gualtiero Zanetti). Brera vagheggia un modulo che sappia contaminare, in Italia, il vigore troppo monotono degli anglosassoni e la squisitezza tecnica ciecamente prodigata dai latini sudamericani. Inventando la propria tradizione, sa che il catenaccio non è un’esclusiva italiana (perché già negli anni quaranta l’austriaco Rappan praticava il Verrou o Riegel al Grasshopper di Zurigo) ma che è tutta italiana l’attitudine a economizzare le energie (la caisse d’epargne di cui gli dirà, seccatissimo, un collega francese ai Mondiali di Messico ’70) nonché a disporsi in campo per attirare la squadra avversaria e colpirla di rimessa. Nella Storia critica la genealogia del contropiede è un fatto di lungo periodo e muove addirittura dalla Pro Vercelli anni dieci, passa per la nazionale di Pozzo (accusato comunque di praticismo e scarsa consapevolezza tattica, in pratica di razzolare bene ma, da succubo dei maestri inglesi, di predicare male), continua con il Bologna anni trenta di Arpad Weisz, vincitore sul Chelsea al Torneo dell’Esposizione di Parigi nel 1937 e arriva finalmente al 1960, annus mirabilis del catenaccio, quando la Figc affida a Gipo Viani e Nereo Rocco gli azzurri della nazionale Olimpica. Se Viani è un antesignano (“Vianema” si chiamava il criptocatenaccio da lui praticato in provincia), Nereo Rocco, tecnico della Triestina e poi del Padova anni cinquanta, è il suo primo eroe eponimo, sinonimo di saggezza, di umanità e di genio perfettamente dissimulato nella bonomia: Rocco è l’anti-italiano per eccellenza, un nemico giurato della verbosità e della megalomania. Nella buca di Prato della Valle, dove si battono e contrattaccano con vigore belluino i ragazzi che Rocco chiama i Manzi (difensori leggendari quali Blason, Azzini e Scagnellato, una mezzala come Humberto Rosa, punte del valore di Sergio Brighenti e Kurt Hamrin), Brera vede per la prima volta il corrispettivo si potrebbe dire dialettale di due grandi nazionali che intanto stanno praticando il catenaccio senza che il pubblico e la critica sappiano o vogliano avvedersene, l’Uruguay (che ha modo di ammirare contro gli ungheresi di Puskas ai Mondiali svizzeri del ’54) e il Brasile di Stoccolma ’58, la squadra di Didì-Vavà-Pelé convertita al doppio terzino d’area dopo storiche batoste e annose polemiche grazie alla saggezza di un tecnico di origine italiana, Vicente Feola, e su indiretto suggerimento di un ebreo ungherese, Béla Guttman, transfuga dal nostro campionato. 

Giusto in Italia la scuola “difensivista” risulta così minoritaria che la sua tarda affermazione, a cavallo degli anni sessanta, avviene ufficiosamente, quasi si trattasse di dover ammettere una pratica immonda: Brera giustifica la cautela remissiva del modulo citando una massima prudente e disarmante di Francesco Guicciardini (“che se tu nelli italiani riponi fidanza, sempre aurai delusione”) che oggi sappiamo essere invece solamente farina del suo sacco. Rocco, passato al Milan, è il braccio armato e vincente della critica breriana mentre non lo è affatto Helenio Herrera che Brera (suo ispirato biografo) valuta alla pari di un sublime cialtrone, di un abile preparatore e di un geniale opportunista, capace di passare in poco d’ora dal WM ultrapodistico dei suoi esordi al catenaccio ortodosso che munisce la difesa della Grande Inter anni sessanta. Sono gli anni in cui Brera moltiplica i lettori e però continua a dare l’impressione di parlare nel deserto: quando il pupillo di Rocco (l’abatino che ha accettato la parte in commedia) gli muove guerra sui giornali, per nero contrappasso l’Italia viene eliminata ai mondiali inglesi del ’66 dai quidam della Corea. Tale è lo scandalo e il suo personale sconforto che per un momento pensa di congedarsi dalla critica calcistica, convinto non ne valga più la pena. Non immagina che la immediata chiusura delle frontiere ai calciatori stranieri e la crescita corrispettiva del vivaio italiano produrranno un ciclo irripetibile e nel segno, se così si può dire, della più squisita breritudine: prima il Cagliari di Manlio Scopigno e di Luigi Riva (l’altro eroe eponimo, forse il solo eroe da lui celebrato fra i “pedatori”), poi la Juventus italianissima dell’allievo maggiore di Rocco, Giovanni Trapattoni (un tecnico cresciuto a una scuola oramai conclamata, la stessa di Osvaldo Bagnoli, Dino Zoff, Rino Marchesi, Ottavio Bianchi e, a ben vedere, di Marcello Lippi e di Fabio Capello). Quando la nazionale italiana vince a Madrid il Mondiale del 1982, Gianni Brera è di fatto ancora un critico militante ma da tempo viene percepito come il Maestro tout court, per giunta associato a “la Repubblica” che è l’organo ufficiale dell’intelligenza come dello snobismo all’italiana, una forgia implacabile del senso comune. Fatto sta che i lettori si moltiplicano e che cresce intorno a lui una nuova generazione di critici di calcio che tutti riconoscono, ed orgogliosamente, il proprio debito con lui (e qui bastino i nomi essenziali di Gianni Mura, di Mario Sconcerti e, già di una generazione ulteriore, di Matteo Marani, Massimiliano Castellani, Darwin Pastorin, quest’ultimo un breriano anti-breriano, per tacere del grande Beppe Viola, troppo presto perduto). A Madrid è come se Brera avesse vinto, e una volta per sempre. L’articolo che firma su “la Repubblica” all’indomani di quell’11 luglio ha la forma di un peana ma in realtà è un testamento e un virtuale passo d’addio. Egli non può che specchiarsi nella vittoria impensabile, non può che riconoscervi l’impronta del calcio all’italiana, l’epica del catenaccio o, come gli accade di chiamarlo in un momento d’enfasi, del “santo catenaccio” addirittura. Si concede persino una riserva sottile nei confronti del tecnico Enzo Bearzot quando scrive che, alla maniera di Vittorio Pozzo, costui ha predicato male e razzolato bene, attenendosi ufficiosamente al calcio all’italiana che a più riprese, ufficialmente, aveva invece condannato. Così scrive: 
"Io triumphe, avventurata Italia! Il terzo titolo di campione ti pone accanto al magno Brasile nella gerarchia del calcio mondiale. Hai strabiliato solo coloro che non te ne ritenevano degna, non certo coloro che sanno strologare a tempo e luogo sul mistero agonistico del calcio. La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana. […] Ora tu, cara vecchia smandrippata Italia, hai sfruttato appieno le virtù della tua indole, dunque della tua cultura specifica. Non si vince un mondiale senza storia: non si arriva senza nerbo né valore a una finale mondiale. […] Al diavolo i malevoli i cacaminuzzoli gli invidiosi gli incompetenti i pirla i fessi ai quali non è piaciuta la vittoria italiana. Io triumphe, avventurata Italia. Dovessi per un mese cantare le tue caste glorie, ebbene, lo farei con grato entusiasmo. E grazie a voi, beneamati brocchetti del mio tifo, beneamati fratelli miei in mutande."
Quel trionfo azzurro sembra davvero culminare, se non proprio concludere, la parabola di Gianni Brera critico del calcio. È vero che gli restano dieci anni da vivere e da scrivere ma è vera altrettanto, almeno per chi continua a leggerlo, la sensazione di una sua stanchezza, di una ripetitività accademica o forse, più probabilmente, di un suo progressivo disamore. Tutto nel frattempo sta cambiando vertiginosamente intorno a lui, non solo il calcio ma anche il calcio, un gioco che non è più un gioco e nemmeno uno sport, semmai uno spettacolo a esclusiva dominante mediatica. D’altronde non potranno mai andargli a genio (a lui geloso custode della italianità calcistica) il cosmopolitismo di squadre in cui gli stranieri di nuovo sovrabbondano, il disinteresse dei club e del pubblico per la nazionale (quando la vittoria di Berlino 2006, a lui postuma, sembra la classica eccezione che conferma la regola) così come non può non detestare la vigente riforma tecnico-tattica (ai suoi occhi certamente una controriforma) che si ispira al “calcio totale” degli olandesi anni settanta, un modulo che proprio lui ha bollato, se non irriso, chiamandolo “panturbiglione” (parodia del tourbillon), un combinato disposto di frenesia atletica e offensivismo tattico che prepara la deminutio capitis della sua stessa effigie di critico e di teorico del calcio.

All’eresia vincente di Rinus Michels e di Arrigo Sacchi continuerà a guardare con sospetto e ironia nella vana attesa di una resipiscenza: ma Brera resta un modernista radicale (si potrebbe dire un teorico del realismo critico) nel mondo che si avvia, anche nel calcio, alla postmodernità. In particolare a Sacchi non perdona di essere l’antipode di Nereo Rocco e infatti non sarà disposto a passargli né l’aura del “persuaso” (così un poeta-filosofo goriziano definiva un secolo fa i profeti che tali si autoproclamavano) né la parlantina irrefrenabile che lo associa parimenti ai conterranei Vincenzo Muccioli e Benito Mussolini. Il calcio terminale di Brera è in tutto e per tutto un calcio da nuovi ricchi e per nuovi ricchi, oggi così esoso, formattato, così ubiquitario, da non prevedere e anzi da abolire il concetto di “critica”, un calcio peraltro comunemente raccontato (escluse le ovvie e reverende eccezioni) in un gergo dogmatico e fondamentalista, in una Neo-lingua il cui lessico è davvero ripugnante: quando Gianni Mura afferma di dover sopravvivere fra i senzabrera è probabile si riferisca a tutto questo, pari al gruppo di fedelissimi (e fra gli altri il biografo breriano Andrea Maietti e il filologo Alberto Brambilla) che da anni redigono in suo onore i “Quaderni dell’Arcimatto”. Quanto infine a Gianni Brera e al vetusto contropiede, viene in mente un autore che lui amava ancora meno di Carlo Emilio Gadda, cioè Alessandro Manzoni, e in particolare un suo personaggio, l’ineffabile Don Ferrante, colui che cambiava le parole non sapendo o non volendo cambiare le cose: sono gli ignari discepoli di Don Ferrante che noi dobbiamo ringraziare se adesso, in Italia, il contropiede si chiama “ripartenza”.

"Lo Straniero", 2/2013