Il funambolo Bohumil Hrabal

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Fantasista boemo dotato di grande estro e improvvisazione. Il suo modo di giocare rifuggiva dagli schemi fissi e puntava tutto sulla creatività con una vena di follia. Era un “driblomane”, ma anche quel che si dice uno che “inventava calcio” e mai espressione fu più appropriata per definire un giocatore.

Formatosi calcisticamente in strada su campetti improvvisati tra baracconi da fiera, conservò uno spiccato tratto naif anche quando diventò un professionista. Nato a Brno, ma praghese di adozione, Hrabal era un difensore che non difendeva, un attaccante che non segnava, un centrocampista che non ragionava eppure è stato un grande giocatore. Entrava in campo con quella sua aria di eterno bambino e dava sfogo alla sua fantasia, sciorinando tutta una serie di funambolismi che lasciava gli spettatori, e spesso anche gli avversari, a bocca aperta. Poi, appena l’arbitro fischiava la fine, correva in una delle tante birrerie di Praga a raccontare ai suoi amici come era andata la partita; il tutto tra oniriche bevute.

Nonostante abbia attraversato un’epoca cupa e piena di orrori, tra nazismo e stalinismo, Hrabal sembrava toccato da una grazia sublime riservata a pochi altri calciatori: riportare il calcio alla sua essenza più vera, quella del gioco e del divertimento.
(2012)

Tanta fatica per nulla

di Valerio Magrelli

Tutti conoscono ormai la celebrata, e a ragione, "autobiografia" di Andre Agassi, intitolata Open e redatta da un premio Pulitzer quale J.R. Moehringer. Tuttavia, molto prima di questa opera-confessione, ero rimasto profondamente colpito da una semplice intervista a un altro grande del tennis. "Dopo quello che ho fatto della mia vita, avrei potuto tollerare tutto, ma non l'eventualità di arrivare secondo". Era questo il sunto di una dichiarazione che Bjorn Borg rilasciò qualche anno fa. Con queste parole, il tennista svedese annunciò il suo ritiro dopo essersi piazzato al posto d'onore nel massimo torneo mondiale, ovvero Wimbledon. Quello che ad altri sarebbe sembrato un successo, per lui fu la sconfitta, e una sconfitta definitiva. In quella confessione, infatti, l'atleta ammetteva che fino ad allora non aveva cercato la vittoria: l'aveva semplicemente pretesa.
"Dopo quello che ho fatto della mia vita", sembrava più o meno affermare, "dopo averla ridotta a un'infinita serie di palleggi, dopo aver impoverito la trama del mio tempo fino a farne una monotona tessitura di scambi, dopo aver trasformato il mio destino nel movimento di un telaio inesorabile, - dopo tutto questo, io non posso perdere". E abbandonandosi alla sua delusione, lui, il primo fra tutti, abbandonò d'improvviso il circuito agonistico.
Logicamente, dietro l'autodafé di questo atleta che si ribella alla sua catena di montaggio, sta il problema della specializzazione. Per affrontarlo, si dovrebbe ricorrere a parole come "divisione del lavoro", "alienazione", "merce", ma con un occhio a quella Società dello spettacolo di cui ha parlato, con spaventosa durezza, Guy Débord.
Borg non era un luddista, e non cercò di distruggere nessuna macchina. Si limitò semplicemente a uscire degli ingranaggi del sistema, rinunciando a farne parte. La sua fu insomma una sorta di resa deontologica, l'abbandono di un lavoro incapace di compensare i sacrifici richiesti. Ma se la vita degli atleti di oggi assomiglia a un piccolo inferno della ripetizione, se questi operai del nostro svago sembrano sempre più simili alle vittime sacrificali di certe società pre-colombiane, cosa accade a chi pratica uno sport per diletto? O meglio, quale sarà la forma e il senso di un simile diletto?

Ho cominciato parlando di un professionista, poiché ritengo che la professionalizzazione rappresenti la negazione stessa del concetto di gioco. L'applicazione dei ritmi di produzione allo sport finisce cioè per rovesciarne il significato. Alla sua origine, la parola "distrazione" indica infatti un atto di spostamento, distanziazione, scarto dal lavoro, e "distratto" sta appunto per "tirato con forza in una direzione", dunque "staccato da un punto". Analogamente, sia pure in modo figurato, "divertirsi" significa "allontanarsi da qualcosa", rompere ogni contatto con la sfera dell'obbligo e del dovere, per entrare nel cerchio magico del gratuito. E' in questo cerchio magico che l'uomo può finalmente ricorrere alla propria capacità di agire, senza per questo doverla sottoporre alla ricerca dell'utile. Soltanto distogliendoci dall'economia del giorno feriale, potremmo accedere alla dimensione raggiante della festa.
Ciò non implica certo l'anarchia; al contrario, ogni attività ludica, per essere tale, deve avere regole ferree. Si tratta però di norme particolari, che il giocatore accetta senza riserve, in quanto formano la struttura del suo piacere. Paradossalmente, il diletto sportivo nasce dalla libertà con cui il corpo si sottopone alla fatica. Ecco perché, con un facile bisticcio, potremmo definirlo "lo sfarzo dello sforzo", cioè un atteggiamento mentale ed emotivo che permette di tramutare il dispendio in guadagno, e l'energia profusa in piacere acquisito. Solo così lo sport resta fedele alla sua radice francese di "diporto", sinonimo di divertimento, evitando di trasformarsi in quella spaventosa "deportazione" subita dagli atleti professionisti.

Riceviamo dall'autore questa prosa (soggetta per l'occasione a "qualche necessario rimaneggiamento"), già pubblicata in Caffè nel 1998.

Il Grande Torino alla Dossenina di Lodi

Calcio di oggi calcio di ieri
di Andrea Maietti

19 Gennaio, festa di San Bassiano, patrono di Lodi. Da ogni angolo del Lodigiano non si manca di far visita alla cripta del Duomo, dove sono venerate le reliquie del santo. Un tempo dalle campagne venivano a piedi o sui carri o in bicicletta. Sotto il tabarro c’era un trancio di salame nostrano, da condividere nelle osterie della città. «La sera di San Bassiano – dice un vecchio adagio – in piedi dritto resta soltanto il campanile». La Dossenina, l’antico stadio di Lodi, ha spesso ospitato a San Bassiano le grandi del calcio italiano. E il 19 Gennaio 1949 vi scese il grande Torino.

Come si diventava tifosi del Toro? Contava certamente la fama di squadrone per anni dominante in Italia. E poi il tragico destino di Superga. Dice Sandro Pizzamiglio, el vigilon, fedelissimo alla Dossenina: «Sono diventato torinista il 4 Maggio del 1949 - racconta -. La radio diede la notizia. Vidi Felice, mio fratello maggiore piangere come un bambino. E mia madre, anche lei tutta un magone. Da allora sono stato uno del Toro». Il Torino vinse due a uno su un campo bianco di segatura, gli spalti della Dossenina neri di tabarri e candidi del fiato di lodigiani convenuti da tutta la Bassa. Di quella partita mi ha contato Tono Castellazzi, terzinone di quel Fanfulla militante dignitosamente in serie B: «Quanta gente alla Dossenina! Il campo era gelato, da spaventare le cornacchie. Io ero infortunato e non ho potuto giocare quel giorno. Nel Torino non scesero in campo Valentino Mazzola e Maroso. Che meraviglia vederli giocare quelli del Toro. Erano mostri di tecnica e di corsa. Si scambiavano i ruoli, tutti attaccanti e tutti difensori, giocavano a memoria. Quando sono arrivati gli olandesi di Cruyff, mi pareva di averli già visti tanti anni prima: alla Dossenina di Lodi, con la maglia granata del grande Torino».

Mario Castellazzi, detto Tono. E’ stato per infiniti anni allenatore dei giovanissimi. Preoccupato sempre di sdrammatizzare: «Una partita in trasferta a Brescia – gli ho sentito raccontare - Avevo il numero due sulla schiena. Rientrai perplesso nello spogliatoio dopo il primo tempo: «Scusi, Mister – chiesi al mio allenatore - ma perché dalla tribuna i bresciani continuano a urlare: due, due…Perché ce l’hanno con me?». «Bamba, tarlüch – ribattè il mister – Due l’è el num de l’ala destra che l’è adré a tirat scemo!»
(2014)