Ennio Flaiano e l’ingiustizia dell’ala destra

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Abruzzese di origine, Ennio Flaiano cresce nel Pescara per poi approdare giovanissimo a Roma, che diventerà la sua vera amata-odiata città e dove si è affermato come uno dei giocatori più brillanti del calcio italiano, anche se in gran parte incompreso. Per tutta la carriera si è sentito un “fuori ruolo”.

Inconfondibile per gli occhiali e i suoi baffetti neri, si muoveva in campo con una aria seria, corrucciata e vagamente malinconica perché perennemente confinato sulla fascia destra. Un’ingiustizia tecnica a cui Flaiano reagiva con la disincantata ironia del fuoriclasse: “il peggio che può capitare a un genio è quello di essere compreso”. Il fatto è che, tratti in inganno dai suoi scatti brucianti e dai suoi guizzi fulminei, i tecnici e i giornalisti dell’epoca lo hanno scambiato sempre per un’ala, mentre in realtà lui sentiva di avere il passo e la visione di gioco del regista di centrocampo.

E l’equivoco continua. Ancora oggi viene ricordato spessissimo, in genere da chi non lo ha mai visto giocare, soprattutto come un dribblomane, mentre invece era molto di più. Vengono continuamente citate le sue finte e i doppi passi, dimenticando quelle rasoiate di quaranta metri che aprivano il gioco e tagliavano a fette le difese avversarie. Per una strana congiura, nonostante i riconoscimenti, è stato un giocatore largamente sottostimato dal mondo del calcio, che d’altra parte lui ha sempre considerato un po’ cialtrone e nel quale si sentiva come stritolato.

In una delle ultime interviste rilasciate infatti affermava: “Una volta entrati in quel giro è quasi impossibile uscirne. Ma non amavo quell’ambiente, non mi riconoscevo in quel lavoro, ho sempre avuto un senso di colpa, e non perché io presumessi di dover dire grandi cose agli uomini, ma sentivo di tradire la mia natura”.
(2012)

Addio al calcio

di Valerio Magrelli

5'

Giocare da soli col padre è un momento struggente, insostenibile. Quei pomeriggi di domenica, a fare due tiretti, mentre una radiolina gracchiava i risultati. Non mi sono ancora ripreso. Ma se quell'ora di scambi e di consigli mi fa venire il groppo in gola, devo esserle grato per quanto seguiva la nostra partitella. La luce andava via, veniva il freddo, e allora, accaldati e tremanti, ci infilavamo in un antico caffè nei pressi di Villa Borghese. Era un ritrovo d'altri tempi, con vetri molati e legno alle pareti, camerieri vetusti e gran gelati. L'hanno spazzato via, quel vecchio bar, con le ruspe, il tritolo, i caterpillar. Hanno voluto raderlo al suolo, in un cantiere orrendo che sembrava Baghdad. Quell'unico nido, caldo e luminoso nelle tenebre, che ci aspettava la domenica sera.

Da Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto.

Rapid Roth e la leggenda del santo calciatore

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Uno degli ultimi fuoriclasse della grande scuola danubiana, sconfitta e perduta per sempre.  Cresciuto calcisticamente in un piccolo club della Galizia, è poi approdato al Rapid Vienna e alla nazionale austriaca, il leggendario “Wunderteam”. Elegante palleggiatore e con uno scatto bruciante, Joseph Roth visse stagioni magiche nella capitale austriaca. In quel periodo a Vienna si respirava un’aria incredibile e lui in campo dava spettacolo; poi appena finiva la partita via di corsa in qualche locale a mangiare wurstel e crauti fumanti serviti da bionde kellerine. Era la Felix Austria. Poi il tramonto di un’epoca, di un mondo, di un Impero e quel che è peggio della scuola danubiana. Era la Finis Austriae.

Gli anni d’oro di Roth finiscono lì. Incapace di accettare la nuova realtà, dopo un ultimo pellegrinaggio spirituale alla Cripta dei cappuccini e allo stadio del Prater, Roth cominciò a vagabondare per l’Europa, raccattando ingaggi prima a Berlino, poi in Olanda, in seguito a Nizza per approdare infine a Parigi, ultima stazione di questa sorta di via crucis calcistico-spirituale. Ma era uno sradicato. Solo a Vienna si sentiva un vero calciatore e non riusciva a sopportare la fine del calcio austriaco, di cui amava in modo spasmodico pregi e virtù, ma anche errori e difetti, mentre invece detestava con tutte le sue forze il calcio moderno basato sulla forza atletica, che lui considerava disumano.

Gli ultimi anni parigini furono un lungo e tragico tramonto. Il fisico ormai appesantito, lo sguardo appannato, il suo leggendario scatto un lontano ricordo, il grande campione si esibiva in squallidi campetti di periferia e annegava le sue infinite nostalgie nei caffè a suon di pernod. Il 23 maggio del 1939 Joseph Roth stramazzò sul terreno di gioco nel cerchio del centrocampo e morì in una crisi di delirium tremens all’ospedale dei poveri.
(2012)

Ode alla FA Cup

La Football Association ha chiesto a Lemn Sissat, già poeta ufficiale dei Giochi Olimpici di Londra 2012 e Cavaliere dell'Order of the British Empire, un'ode per festeggiare la più antica e giovane delle competizioni, la Football Association Challenge Cup, nota più familiarmente a tutti i suoi appassionati come FA Cup.

Adventure Flight
di Lemn Sissay

The third planet from the sun, this spinning earth
Thousands of football cups but only one is first
Here comes the light to break the pitch: The new day
Crowds wake! Clouds break! The adventure is underway

I will not waiver I will not fall. I will not cower
When under great pressure the great overpower
We are equal in dreams - underdogs and over achievers
We are nothing without adventure believers

There’s everything to gain: Everything to prove.
Touch and be touched, move and be moved
Summon all resources, steal chance, take risk
The challenge, the adventure, the grit.

One game one destiny one goal one curved ball of earth
One and all young and old more than gold is worth
All four corners, this field this cup – Our number one
When against all odds carry on. Shout “Carry on”

Make wings of your arms with the heart. At its centre
The challenge, the Flight, Every game’s an adventure

(2015)
NotiziaLemn Sissay

Febbre a 90'


Nick Hornby
Fever Pitch. A Fan's Life

Chronicled from the perspective of a besotted ten-year-old Arsenal fan, through disillusioned adolescence, to an adult "who should know better", this book examines the absurdities, idiosyncrasies and traumas of everyday life and football. It won the William Hill Sports Book of the Year Award. Interweaving his personal and familial upheavals with the varied fortunes of Arsenal over two decades, Nick Hornby has produced an insight into what it is like to be a fan. Combining anecdote with a wider commentary on the state of the game, the book touches upon many issues, from pre-match entertainment to the availability of FA Cup tickets, hooliganism, the tragedies at Heysel and Hillsborough, non-League and school football, and Arsenal's reputation as a boring team.

A vent’anni dalla prima pubblicazione torna, con una nuova introduzione dell’autore, Febbre a 90’, uno dei libri più amati di Nick Hornby, l’avvincente racconto di come la passione per il football e l’amore per la squadra del cuore possano essere così intensi da cambiare in maniera radicale la vita di un uomo. Con tono ironico e affettuoso Hornby, tifoso dell’Arsenal fin da bambino, riporta in prima persona rituali, sogni, delusioni e rari momenti di estasi di un «ossessionato» del pallone. In questo diario calcistico sui generis gli incontri dei Gunners scandiscono infatti anche gli eventi più importanti della vita dell’autore; e così la cronaca diventa romanzo, una vera e propria «educazione sentimentale» del tifoso in cui, fra un gol e l’altro, sullo sfondo della Londra metropolitana, si affrontano tutti i nodi fondamentali e le difficoltà del diventare grandi, perché «la vita non è, e non è mai stata, una vittoria in casa per 2-O contro i primi in classifica con la pancia piena di patatine fritte».

1992 | AnteprimaGuanda 2012 | L'autore | Le annotazioni dell'autore