Lenta può essere l'orbita della sfera

Michele Ansani
Lenta può essere l'orbita della sfera
Viaggio nel tempo e negli spazi del football
Roma, Edizioni Eraclea, 2016
Scheda | Amazon | IBS


Sul taccuino di un viaggio (anzi, di un vagabondaggio, tra l’Europa e il Sudamerica) nelle terre del pallone, quelle risapute e quelle meno esplorate da cronache e storici, si affollano ricordi di nomi e di luoghi. Da William Dunning a Stanley Matthews, da Jan Studnicka a Ferenc Puskás, da Demóstenes a Johan Cruijff, da Meazza a Gilmar Popoca; dal Centenario a Wembley, dal Népstadion a Örjans Vall, da Vila Belmiro a San Siro. Nomi di sfondareti e leggendari portieri, nomi di stadi che rimandano a "una storia probabilmente destinata a fluire anche oltre il tempo del finimondo, semmai ci sarà - in fondo, il gioco è già sopravvissuto a due guerre mondiali, a infiniti conflitti locali, a epocali mutazioni politico-economiche, alle rivoluzioni tecnologiche e culturali".
L’autore ha affrontato questo viaggio in compagnia (saltuaria, oltreché immaginaria) di Vittorio Pozzo e assistito da un doppio alter ego (un professore sbrigativo e un ragazzino trasognato). Venuto il momento di riesaminare tutti gli appunti, di operarne una selezione, ne sopravvivono narrazioni brevi, un piccolo catalogo (epico, fantasmagorico, comico) di gesti, partite e santuari del calcio pre-contemporaneo, destinato a stuzzicare la memoria degli appassionati e sollecitarne la curiosità.

Recensioni:
- Scintille di calcio (Silvano Calzini, Melina. Rivista di Slow Football)
- La sfera in orbita (Carlo Martinelli, Palle di carta - Gruppo Espresso)

Bravi & Camboni

Paolo Piras
Bravi & Camboni
L'epica minore del Cagliari. Piedi storti, teste matte e colpi di genio
San Gavino Monreale, Egg, 2014

Recensioni: La Chanca (M. Chirico) - Palle di carta (C. Martinelli)

Facile parlare solo di campioni, nel tempo della TV onnipresente. Più difficile è conservare e tramandare l'epica dei "camboni", gli scarponi volenterosi i cui svarioni sono avvolti nelle leggende da bar. La storia del Cagliari, fatta di brevi glorie e lunghi periodi di purgatorio, è una galleria di eroi e bidoni, di gesta e di disastri, e di tanti gregari ingiustamente dimenticati. Calciatori, presidenti, allenatori: trentatré ritratti per altrettanti tipi umani, uniti nell'idea ostinata che un altro calcio sia possibile.

L'epopea del Toro

Il Grande Torino. Campioni per sempre
Sedici scrittori raccontano l'epopea degli invincibili
A cura di Pietro Nardiello e Jvan Sica
Roma, Absolutely Free editore, 2017
Scheda

Il Grande Torino era una squadra leggendaria, invincibile, che solo il fato riuscì a sconfiggere.Una realtà che va ben oltre il semplice evento sportivo, ma che mette insieme anche la storia di un Paese che in quell’Undici si riconosceva al di là delle distanze geografiche.

Parte da questa premessa l’idea di Pietro Nardiello e Jvan Sica: raggruppare un collettivo di scrittori che possano cimentarsi nel racconto di una storia che non si è mai conclusa, ma che è diventata, invece, un valore da condividere e tramandare.

... Nel piccolo caffé di via Garibaldi, a Torino ...


... Nel piccolo caffè di via Garibaldi, a Torino, ci son quasi tutti: Gabetto, Ossola, Bacigalupo, Grezar. E Casalbore è uscito dal giornale e sbuca dall'angolo di corso Valdocco con la sua aria di signore napoletano. Giocatori ch'erano glorie, speranze e che ora sono soltanto avvocati e operai, quanti ne restano a far lungo il romanzo dei campionati. Questo è Bosìa, questo è Filippi, questo è Vallone. Casalbore sfoglia le pagine della storia di cui da anni, ogni domenica, egli va scrivendo i capitoli. E Gabetto e Ossola, se intervengono, parlano con la stessa finezza con cui giocano, con le stesse finte, con gli stessi scatti. Ragionano di se stessi senza indulgenza e senza orgoglio, come tecnici.

Alla domenica, dopo la partita, eravamo certi di trovarli riuniti a tavola in quell'osteria Pollastrini ove mangiavano tutti i giornalisti di corso Valdocco. A volte erano lunghe tavolate. Con la primavera si andava a un "dancing" all'aperto vicino a Piazza Statuto. Il campionato era per finire e già si parlava del prossimo. La comitiva a poco a poco s'ingrossava. A uno a uno venivano tutti. Grezar sempre taciturno con la sua aria di scolaro spettinato, Castigliano in allarme con i suoi occhi vivissimi non riusciva a star fermo. Sapevano ch'ero un poeta e che parlavo di calcio con una memoria di nomi e di date di cui essi stessi si meravigliavano, compiaciuti che nella loro vita io sapessi leggere con tanto affetto e con tanta nostalgia per la nostra comune giovinezza.

Prima della partita Italia-Ungheria, ci ritrovammo tutti insieme a Limone. Quella giornata non potrò dimenticarla, resterà tra i miei ricordi più cari. Quel giorno Loich era allegro per quanto Mazzola era ombroso e impaziente. E Gabetto puntò di scherma con noi giornalisti, venendo da ultimo a sederci vicino come uno dei nostri. (Avrebbe finito con lo scrivere anche lui, diceva). Alla fine del pranzo, Pozzo ricordò Ferraris IV ch'era morto da qualche ora sul campo (1). Quel Commissario coi capelli bianchissimi e col volto che gli rideva dalle fossette e dagli occhi, seppe trovare le giuste parole, senza indulgenze e senza retorica, come un bel tiro a rete. Era un morto solo, il "leone di Highbury", ma alla domenica sembrò che occupasse tutto il silenzio del campo. Più bianche le bandierine del corner per lui piegarono al vento delle memorie.


Ma per tutti i morti della sera di maggio - sono passati dieci anni - i ragazzi lasciano prati e giochi, le mani aperte e "più nulla". Anche se li hanno divisi, sono allineati tutti insieme, i trentuno caduti, in un unico campo d'erba verde, cinto da un muro come uno stadio. Torino ha le colline, il fiume, gli operai, le fabbriche e tanti calciatori, tante squadre che al sabato e alla domenica giocano alle sue porte. Proprio come vidi a Budapest, una volta. Dire "più nulla" o soltanto addio: addio, ogni domenica ...

Alfonso Gatto, Uno scrittore allo stadio, in "L'Approdo Letterario" 3 (1959), p. 90-91

(1) Attilio Ferraris IV, campione del mondo nel 1934, morì a Montecatini l'8 maggio 1947, durante una partita di beneficienza. La nazionale doveva affrontare in una sfida amichevole l'Ungheria a Torino l'11 maggio; la mattina del 9, la comitiva partì sul 'Conte Rosso' d Torino per Limone Piemonte.

Kopa

I ritratti di Eduardo

Lo chiamavano il Napoleone del calcio perché era bassino e conquistatore di territori.

Con la palla al piede, però, cresceva e dominava il campo. Giocatore di grande mobilità e brillante dribbling, Raymond Kopa sgusciava verso la metà campo disegnando arabeschi sul prato. Gli allenatori si strappavano i capelli per il suo eccessivo gingillarsi col pallone e i francesi esperti di calcio erano soliti accusarli del delitto di avere uno stile sudamericano. Ma nel Mondiale del 1958, Kopa fu incluso dai giornalisti nell'undici ideale e in quello stesso anno vinse il Pallone d'oro che si assegna al miglior giocatore d'Europa.

Il calcio lo aveva strappato alla miseria. Aveva cominciato a giocare in una squadra di minatori. Figlio di emigranti polacchi, Kopa lavorò per tutta l'infanzia insieme a suo padre nelle miniere di carbone di Noeux, dove si calava tutte le notti per riemergere di pomeriggio.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

La Spoon River del pallone

Gigi Garanzini
Il minuto di silenzio.
La storia del calcio attraverso i suoi eroi
2017 | Mondadori, Milano
Scheda

"Dove sono Mumo, Lev, Helenio, George e Omar, l'abulico, l'atletico, il buffone, l'ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina. I cinque aggettivi sono quelli del secondo verso di Edgar Lee Masters. I personaggi, tolto Jascin che ci sta dentro in pieno, sono invece adattati con un pizzico di disinvoltura perché l'abulìa di Mumo Orsi era saltuaria assai, la buffonaggine del mago Herrera una componente studiata e coltivata del suo carisma. Mentre i vizi di Best e il caratteraccio di Sivori non ne hanno impedito l'ingresso nella galleria dei più grandi. La collina su cui dormono è una Superga dell'anima. Il rimando a Spoon River, deferente e inevitabile, spero non spudorato, si ferma qui. Questa è una semplice passeggiata della memoria, coltivata negli anni e immaginata con un centinaio di garofani rossi. La storia del calcio l'hanno scritta davvero in tanti. Un fiore e un minuto di silenzio per ciascuno. Ma silenzio-silenzio, senza che a funestarlo arrivi il bell'applauso di cui la società dello spettacolo non sa più fare a meno. Un minuto. Due-tre nel caso dei personaggi più straripanti: è quanto serve alla lettura di ciascuno dei ritratti. Per ricambiare le emozioni che hanno regalato a generazioni di appassionati. E insieme per riviverle, per continuare a tramandare le loro gesta, le imprese, e perché no, le umane debolezze. Tutti, tutti, dormono dunque sulla collina del football. Ragazzi come Meroni e Scirea, vecchie glorie come Di Stéfano e Matthews, cantori come Brera e Galeano. Se il calcio è rimasto di gran lunga il gioco più bello del mondo lo deve innanzitutto a loro: e ai tanti altri che è stato emozionante scoprire o riscoprire. Quand'eran giovani e forti ci hanno fatto battere il cuore". 

Gigi Garanzini, una delle penne più nobili del giornalismo sportivo, costruisce con arte una storia lirica del calcio mondiale. Un'impresa romantica, un libro scritto in stato di grazia, lieve come un fiore posato sulla tomba di un eroe.

El Bocha

Ritratti
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Era alto 1,68 e pesava 67 chili. Aveva una testa come un campetto di paese, spelacchiata al centro, un tronco di plastilina, e due gambe di filo spinato. Chiara dimostrazione del fatto che nel calcio l'aspetto non fa l'idolo.

Giocava con il numero 10, numero che si trascina dietro il sospetto, in questo caso confermato, di avere poca voglia di faticare. Il suo piede era il destro, ma non fu mai capace di calciare con forza il pallone. Al massimo, lo spingeva. Colpire di testa, neppure, perché aveva quattro capelli e non era proprio il caso di metterli in pericolo. Ad allenarsi non è che ci andasse molto, e quando si decideva, arrivava tardi. Non abbiate fretta di giudicarlo: era un genio che usava la testa per pensare miracoli, il piede destro per realizzarli e il corpo per raccontare bugie agli avversari. Anche così, capisco che è difficile spiegare la sua grandezza a un europeo.

Era la sintesi di tutti i vizi e di tutte le qualità più caratteristiche del giocatore argentino; ha saputo condensare una filosofia popolare che privilegia la tecnica e la creatività mentre condanna il sacrificio. Una volta gli chiesero un'opinione su Johan Cruyff, e la risposta fu quasi una definizione: "Corre molto, però gioca bene". Gli parve sempre una contraddizione, oltre a una vera stravaganza, che qualcuno dotato si mettesse a sudare. Il Bocha non ne vide mai la necessità. Per quanto si sforzasse.

Ha sempre giocato per il gol, a patto che fosse un altro a prendersi la briga di segnarlo. In una partita amichevole che la nazionale argentina giocò Buenos Aires sotto la direzione tecnica di Cesar Luis Menotti, il nostro numero 10 si stancò di servire palle gol e i suoi compagni si stancarono di fallirle. Una volta rientrati negli spogliatoi, il Bocha si lamentò amaramente: "Di questo passo dovrò mettermi a segnare anch'io". E ciò avrebbe significato un tradimento, visto che Bochini buttava la palla dentro solo se non c'era altro rimedio.
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Jorge Valdano, Il sogno di Futbolandia, p. 44