L'Ajax non difende mai

di Jim Shepard

L’acustica degli stadi deserti era bellissima. Se anche un solo uccello cinguettava lo potevi sentire da qualsiasi punto del campo. La mattina presto, oppure dopo la partita, quando le luci erano spente e il cielo scuro, dalla panchina si sentiva il vento frusciare tra l’erba. Nel campionato olandese, all’epoca, le strutture degli stadi erano scheletriche e intime. I pannelli pubblicitari erano come dei vecchi amici e puzzavano di legno bagnato. Le balconate vuote sovrastavano la tribuna, e le cartacce soffiate dal vento rimanevano intrappolate tra gli schienali degli spalti più in basso.

Se prendevi un pallone e lo calciavi in mezzo al campo, il rumore del colpo riempiva tutto lo spazio. Era come se quel rumore ti afferrasse qualcosa dentro al petto.

Mi chiamo Velibor Vasović e ho giocato a calcio per undici anni, prima nel Partizan Belgrado e con la maglia della mia nazionale - e poi nell’Ajax. O forse dovrei dire che per undici anni ho giocato per soldi, perché a calcio ci ho giocato tutta la vita. Mio fratello giocava a pallone con i suoi amici e, appena sono diventato abbastanza grande da tenermi in piedi, ho cominciato a giocare con loro. All’inizio come portiere, ma non riuscivo a stare fermo un attimo, inseguivo il pallone facendo incavolare gli altri e rovinando tutte le partite, finché in porta ci hanno dovuto mettere qualcun altro. Giocavamo ogni giorno. La guerra era appena finita. Quando pioveva usavamo la stalla. La mucca stava sotto la pioggia e ci guardava. Sei o sette ragazzini in tre metri quadrati: così si imparava a controllare la palla.

Giocavamo con qualsiasi cosa avesse una forma rotonda. Di solito palle da tennis; la famiglia di uno dei ragazzi ne aveva una vecchia scatola. Sviluppavi una tecnica formidabile provando a dribblare con una palla da tennis.

Durante la Coppa del Mondo del 1954, in Svizzera, in una partita del girone mio fratello era sceso in campo contro le immortali maglie rosse dell’Ungheria - Puskás, Kocsis, Hidegkuti -, la squadra che aveva umiliato l’Inghilterra per 6-3 e 7-1 qualche mese prima.

“Come è stato?” gli avevamo chiesto al suo ritorno. Avevamo seguito la partita alla radio ma il cronista non era in grado di raccontare quello che accadeva in campo. Ammassati intorno al bancone del bar, tutto quello che eravamo riusciti a capire era che Kocsis era entrato in area di rigore, si era fermato e girato. Poi Dio era stato invocato ad alta voce. E un attimo dopo si era sentito un gracchiante boato metallico. Perciò quando era tornato mio fratello, uno degli undici eroi della nostra sconfitta per 28, era come se fossimo stati lì allo stadio e allo stesso tempo non ci fossimo stati; come se sapessimo e non sapessimo cosa significava davvero giocare contro il calcio più brillante del pianeta.

Dopo la partita mio fratello aveva fatto a cambio di maglia con Puskás. L’aveva portata al bar per farcela vedere. Passava di persona in persona come lo scudo di Achille. Un vecchio si era perfino lavato le mani prima di toccarla.

Dovevamo ripetere le domande a mio fratello più di una volta. Ognuno aveva la propria teoria su quale fosse il segreto degli ungheresi. Le loro doti tecniche? La tattica? La stazza fisica? La velocità? Com’erano le cose in Occidente?

Ripensai alle sue risposte la prima volta che andai a Amsterdam e vidi Johan Cruyff fare un cross di trenta metri in corsa: la morbida traiettoria scavalcò il portiere che aveva provato a intervenire, e il pallone andò a posarsi delicatamente sui piedi dell’ala destra, che l’appoggiò in rete quasi senza volerlo. Era il 1966. A maggio, l’allenatore e il presidente dell’Ajax mi avevano visto segnare il gol della bandiera nella finale di Coppa Campioni persa dal Partizan contro il Real Madrid. Volevano che diventassi il baluardo intorno al quale costruire la difesa dell’Ajax.

Vedete, nel 1966 passare da Žagubica a Amsterdam non era un cambiamento da poco. Cos’era la ribellione a Žagubica a quel tempo? I vecchi contadini che accarezzavano i propri asini in pubblico. Un atto di disobbedienza civile era rifiutarsi di togliersi dalla strada dopo essere caduto a terra ubriaco. Ero arrivato a Amsterdam il giorno della Festa della Liberazione olandese e mentre entravo in città dall’aeroporto pensai che ci fosse stato un colpo di Stato. Una rivoluzione. Un’invasione dallo spazio.

Migliaia di giovani giravano per il centro, a braccetto, cantando e urlando cose che non capivo. La mia interprete, la moglie jugoslava di un olandese, mi spiegò che stavano cantando “Vogliamo i nostri bolletje!”. Venne fuori che i Bolletje erano dei dolci per la colazione. Era uno slogan pubblicitario. Perché lo stavano cantando? Erano annoiati, mi disse lei. Migliaia di giovani che cantavano una cosa senza senso! A gruppi si urlavano addosso questo ritornello, avanti e indietro. La polizia era ferma di fronte a loro, composta, le mani strette davanti.

Rimanemmo bloccati dalla folla in una grande piazza chiamata Leidseplein. La mia interprete si scusò per non aver previsto l’inconveniente, ma sembrava tranquilla. Il tassista teneva le braccia sul volante e ogni tanto urlava qualcosa, in modo benevolo, a quelli che si sedevano sul cofano del taxi. Quando la macchina si fermava, giovani ragazze premevano le guance sul mio finestrino come se il taxi fosse stato la loro nipotina. Appollaiato sulla statua di qualche celebre personaggio, un uomo vestito da sciamano stava praticando una serie di rituali contro il fumo - rompeva dei pacchetti di sigarette, oppure si metteva le sigarette in bocca per poi masticarle e sputarle, o le buttava via con un gesto violento -mentre la folla cantava “Bram bram! Ugga ugga! Bram bram!”.

Volevo sapere che significava “Bram bram! Ugga ugga!”
La mia interprete scrollò le spalle. “Bram bram. Ugga ugga,” rispose.
Mi indicò un uomo arrampicato sull’asta di una bandiera, un tale conosciuto con il nome di “Johnny l’Autolesionista”, che andava in trance e si lanciava a terra da punti altissimi. Molte di quelle persone vestite di bianco, mi spiegò, erano i Provos, un gruppo di anarchici che guardavano al gioco e al divertimento come alla chiave per costruire un mondo migliore.
“Divertimento,” ripetei io, e lei mi rispose, come sulla difensiva, “Be', non c’è bisogno di dirlo in quel modo”.

Vedete, io non sono una persona politicamente schierata. E ovunque sia andato, le persone hanno sempre annuito quando ho pronunciato queste parole, come se le avessero capite davvero. Ma poi correvano tutti dietro a quel referendum lì o a quel movimento studentesco là. “A Vasović non importa un corno di niente,” diceva spesso Michels, l’allenatore dell’Ajax, ai giornalisti e ai miei compagni di squadra. Era il complimento più grande che mi potesse fare. Intendeva niente oltre al calcio.

Quel giorno la mia interprete sembrava fiera del suo paese d’adozione. La sua espressione sembrava suggerire che io fossi una specie di parente venuto in visita da un mondo arretrato. Mi chiese del mio paesino: Com’era la vita in mezzo a quelle colline? Sembrava tutto così selvaggio e remoto.
“Era un merdaio tranquillo,” le dissi. “Questo è un merdaio rumoroso.”
Il tassista le chiese qualcosa e lei rispose con la parola che significa “benvenuto” nella mia lingua.
“Benvenuto,” fece il tassista.
“Sta parlando con te,” disse la mia interprete. Io mi accesi una sigaretta. Non mi piace essere redarguito.
“Questo è un momento di grande cambiamento in Olanda,” continuò lei, come se la frase potesse avere un effetto sul fatto che fumassi.
“La moneta è stabile?” chiesi.
Dopo quella domanda mi lasciò in pace. Passato qualche minuto di silenzio, il tassista fece un’osservazione e lei rispose qualcosa che sembrò rattristarlo.

***

Johan Cruyff era politicamente schierato. Lo stesso giorno in cui venni introdotto alla politica olandese venni introdotto anche al calcio olandese. Mi fecero sedere tra la mia interprete e il presidente del club per vedere l’Ajax che giocava in casa con il PSV Eindhoven. Mi scolai parecchie birre. Notai subito il ragazzo che giostrava sulla fascia sinistra, uno spilungone dalla faccia inespressiva dotato di una resistenza infinita. Corse per novanta minuti di fila, e a fine partita sembrava che avrebbe potuto continuare a correre fino a Maastricht e ritorno. E correva con uno scopo: portava continuamente in avanti l’attacco dell’Ajax, spingendo sulla fascia, scatenando il panico nell’area del PSV e creando spazi per sé e i suoi compagni. Progettava intere geometrie mentre i suoi avversari correvano su e giù come talpe. Era un Pitagora in pantaloncini. Mi dissero che aveva diciannove anni. E mi dissero anche che non dovevo preoccuparmi di lui, dato che la sua posizione era occupata dal giocatore più forte della squadra, che al momento non stava giocando. Mi alzai e me ne andai. Mi rivolsi solo un attimo all’interprete: “Di’ al presidente che se hanno un giocatore più forte di quello, non hanno bisogno di me.” Mi ripresero a metà del corridoio e mi fecero sedere di nuovo. Incontrai Cruyff dopo la partita.

Aveva la stessa espressione vuota mentre si asciugava il sudore. I suoi compagni erano sotto la doccia. Il suo asciugamano era grande quanto un fazzoletto. All’epoca i giocatori dovevano lavarsi le proprie divise e portarsi da casa shampoo e asciugamani.

Sentii l’interprete menzionare il Partizan Belgrado. Cruyff annuì. Mi portò sul campo, fermò un raccattapalle che stava rientrando con una rete piena di palloni e ne allineò qualcuno al limite dell’area di rigore. Ce n’erano nove. L’interprete e il presidente della squadra si misero dietro di noi, facendo qualche osservazione a cui lui decise di non rispondere. Poi, mentre guardavo, si aggiustò i capelli dietro le orecchie e calciò i primi cinque palloni, mandandoli tutti a sbattere con precisione sulla traversa. Dopo si allontanò. Con le mie scarpe da passeggio, feci lo stesso con i quattro palloni rimasti. Cruyff sorrise con la sua espressione vuota mentre l’interprete e il presidente scoppiavano in un applauso.

Quando si fermarono Cruyff si diresse verso il presidente. Si misero a parlare e io cominciai a sentire il bisogno di un’altra birra. L’interprete mi spiegò che Johan era sempre in agitazione per qualcosa.
“Perché, cosa vuole?” le chiesi.
“Oh, niente di che,” rispose imbarazzata. “Ma c’è sempre qualcosa che non va.”
Poi Cruyff si rivolse a lei a bassa voce. Si guardarono per un momento.
“Vuole che ti traduca quello che dice,” ripeté sconfortata.

Venne fuori che stava chiedendo perché i membri dello staff erano assicurati per i viaggi all’estero e i giocatori no. Perché gli allenatori ricevevano i rimborsi per i pasti e i giocatori no. L’interprete sembrava cosciente che quella non era una buona strategia per convincermi a cambiare squadra. Mi confidò che Cruyff aveva quella che chiamava la sua “Lista di lamentele”.

Io, però, la sua smania di mettersi sempre e comunque di traverso la trovavo affascinante. Tra l’altro gli olandesi erano i soli che offrivano la possibilità di trasferimenti in quel periodo, e quindi quello era il mio unico biglietto per l’Occidente.

Anche il presidente ne era consapevole, e dopo aver passato tre giorni chiuso in una camera in affitto decisi di firmare il contratto per metà della cifra che avevo inizialmente richiesto.

Sembrava che gli olandesi seguissero alla lettera il Discorso della Montagna ma il loro cuore era come un libro contabile. I commercianti controllavano ogni singolo fiorino quando ti davano il resto. Che c’è, senti nostalgia di casa?, mi scrisse mio fratello. No, qui mi sento a casa, gli risposi.

Mio fratello era finito a lavorare dodici ore al giorno in una delle fattorie collettive che si erano recentemente consolidate nel sud del paese. La sua carriera era stata stroncata da un’entrata maldestra.

La prima mattina che scesi sul campo d’allenamento con il resto dell’Ajax, alcuni ragazzi dai capelli lunghi mi diedero il benvenuto con un cenno della testa e mi accolsero nel loro giro di riscaldamento. Il sole illuminava i piccoli canali e le mucche che si vedevano nelle vicinanze del campo. Quando l’allenatore arrivò e soffiò nel fischietto, i ragazzi dai capelli lunghi si disposero in due file e proclamarono i loro obiettivi con un piccolo poema:
Gioco aperto, gioco aperto.
Non puoi permetterti di trascurare le fasce.

E poi tornarono al loro riscaldamento. Mi diedero un foglio con una traduzione scritta a mano. Mi presentarono. E cominciò l’allenamento.

Pochi se lo ricordano, ma prima che l’Ajax diventasse l’Ajax, il calcio olandese aveva vinto un numero di trofei internazionali pari a quello del Lussemburgo. Ci vollero tutti i primi trenta minuti di quella mattinata perché ognuno di noi - l’allenatore, il comunista e i ragazzi dai capelli lunghi - capisse che faceva parte di un gruppo di persone che pensavano allo spazio. Il calcio ultra offensivo in cui i giocatori cambiavano di continuo posizione e costruivano azioni offensive da ogni angolo venne elaborato e collaudato su quel campo nel corso dei tre anni successivi. Eravamo un collettivo. Durante le pause discutevamo tra noi. E ascoltavamo tutti. Immaginate se proviamo a fare così? Che è successo quando abbiamo provato quello schema? Cominciammo a far salire centrocampisti e difensori nelle azioni d’attacco, e a vedere in che modo gli attaccanti dovessero adattarsi a questa flessibilità tornando a coprire quando era necessario. Lo scambio di posizioni avveniva in maniera fluida e naturale, e una volta cominciate le partite vere obbligava gli avversari ad affrontare un intreccio continuo di movimenti e improvvisi cambi di marcature. La prima parola olandese che ho imparato è stata “cambio”.

Costruivamo le azioni partendo da dietro; era raro che il portiere rinviasse a centrocampo, di base la passava a uno dei difensori, e da lì la squadra si muoveva insieme per tessere le sue trame: se qualcuno arretrava per un passaggio, qualcun altro si faceva avanti. Durante il possesso palla allargavamo il raggio dell’azione il più possibile, spingendo il gioco sulle fasce e cercando di vedere ogni giocata come un modo per ampliare e sfruttare lo spazio. Quando perdevamo palla, lo stesso ragionamento era applicato in difesa. Parlavamo dello spazio in modo molto pratico. Com’era possibile giocare per novanta minuti ed essere sempre attivi? Se tu eri il terzino sinistro e avevi fatto una volata di settanta metri sulla fascia, rientrare subito per recuperare la posizione non era una cosa tanto sensata. Se un centrocampista prendeva il tuo posto, invece, le distanze si accorciavano. Fu allora che mi accorsi di come gli olandesi cercassero sempre di individuare la soluzione più semplice. E quando la trovavano si entusiasmavano come matti.

Cruyff era il genio, da questo punto di vista. Tutti i bravi giocatori riuscivano a smarcarsi per ricevere palla, ma Cruyff, mentre giocava, riusciva anche a vedere dove era ogni altro giocatore in campo, o dove si sarebbe spostato. Era sempre tre mosse avanti agli altri e le sue azioni erano create per dare forma allo spazio. Dall’alto - dalla tribuna stampa - era come assistere a una lezione di architettura.

Quando coprivamo lo spazio nel modo giusto, tutto all’improvviso diventava tranquillo. Nessun rumore. Si sentiva solo il vento. E la palla: il suono che faceva a contatto con i piedi, il suono che indicava con chiarezza dove stava andando e con quanta forza, lenta o veloce.

All’improvviso il gioco non consisteva più nel prendere a calci le gambe dell’avversario. I tifosi, dopo le nostre partite, andavano via con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico, che non avrebbero potuto vedere in nessun altro luogo al mondo. State davvero creando qualcosa, mi scrisse mio fratello, rispondendo a una mia lettera in cui gli avevo raccontato quello che succedeva.

***

I miei genitori: erano politicamente schierati. Durante la guerra, la loro unità partigiana aveva sia dei fucili anticarro che un mimeografo, e mia madre aveva perso due dita per il gelo dopo aver trascinato l’attrezzatura tra i crinali di una montagna in mezzo alla neve profonda, per non farla cadere in mano ai tedeschi. Dio ce ne scampi. Si sarebbero rovesciate le sorti della guerra. Quella volta in cui, a diciassette anni, tornai a casa fuori di me dall’eccitazione per annunciargli che avrei giocato per il Partizan Belgrado, mi rivolsero entrambi un sorrisetto sarcastico. Non capii il perché fino a quando non mi accorsi che sorridevano per la scritta Partizan sulla mia maglia.

A dieci anni, chiesi di poter partecipare alle lezioni di catechismo che mio zio, un pastore, avrebbe tenuto per mio fratello e i miei due cugini. È probabile che all’epoca pensassi che, alla fine, la cosa mi avrebbe reso parte della famiglia, o almeno parte di una causa comune. Mio zio accettò di sottopormi a un colloquio per verificare la mia idoneità. Il colloquio si svolse in presenza di mia nonna. Non riuscii a rispondere neanche a una delle sue domande. Il mio totale fallimento fece ridere molto mio fratello e mio zio, al contrario di mia nonna che non si divertì per niente.

Quando arrivarono i tedeschi i miei genitori si arruolarono nella prima brigata slovena che prendeva il nome da un poeta-Cankar, nello specifico (”Il popolo scriverà il proprio destino da solo / Senza gli smoking, né i rosari dei preti”). Combattevano l’analfabetismo dando ai bambini poveri carta e matite, invece che soldi e caramelle. Distribuivano periodici come “Morte alla morte!” e “Donna oggi”. Tenevano lezioni sul rapporto tra ideologia e spontaneità. Usavano le porte di casa come lavagne. Dormivano al gelo e facevano la fame. Si fermavano davanti ai portoni dalla Stiria alla Carinzia e cantavano vecchie canzoni slovene per chiedere del pane alle fattorie, che di solito rimanevano sbarrate. A volte però gli permettevano di dormire nel fienile.

Mia nonna era la madre di mia madre. Suo padre era stato un impiegato delle ferrovie, morto di tifo. Sua madre era rimasta vedova con sei figli da accudire, e mia nonna era la più piccola. Mi ricordo che ogni mattina mangiava un po’ di marmellata con un cucchiaino che doveva essere pulito la notte prima.

Si riferiva a suo genero come a una persona di buona memoria, ma senza spessore. Mio padre sorrideva sempre quando lei lo diceva. Era difficile per noi immaginare che mio padre avesse sparato ai tedeschi. Era una persona piacevole e gentile, e quasi sempre diretta.

Prima della guerra lavorava fino a tardi, sotto la tenue luce di una piccola lampada, per permettere ai compagni imprigionati di meditare sulla più recente letteratura e prepararsi alla battaglia. Mia madre preparava le liste e il tè, e lo aiutava con il fraseggio. Si consideravano come dei cavalieri che combattevano una battaglia contro l’oscurantismo medievale e la furia che albergava nell’anima dei nostri contadini più arretrati. Credevano che il Partito e il movimento fossero molto speciali, e che la gente al loro interno fosse molto speciale. Erano convinti che ci fosse una specie di componente scientifica alla base della loro ideologia. Erano circondati da miseria e disperazione, ma più le loro condizioni di vita si facevano insostenibili, più il nuovo mondo gli sembrava vicino. Mettere in pratica le decisioni prese non era sufficiente. Chiunque poteva farlo. Dovevano arrivare al punto di trasformare loro stessi, in modo che ogni singola azione, in ogni circostanza, potesse essere valutata nei termini dei benefici apportati alla causa della rivoluzione. Il ruolo degli storici aveva perso ogni dignità ora che la Storia aveva indicato la via per la libertà finale e la fratellanza tra gli uomini.

***

Una persona che è sul punto di uscire di prigione diventa all’improvviso amata da tutti. E quella persona prova lo stesso per chi lascia dietro di sé. Litigi e rancori vengono dimenticati e perdonati, e lui saluta tutti con calore e schiettezza, come se niente fosse mai accaduto.

La notte prima della mia partenza per l’Occidente piansi e aspettai sveglio che arrivasse l’alba. Mentre mi facevo un tè e guardavo il sole che sorgeva, mia madre e mio padre portarono le mie cose - un completo e un altro paio di indumenti, impacchettati, sgualciti e pervasi da un forte odore di naftalina - accanto alla porta. Il mio avvocato arrivò per farmi firmare le ultime carte necessarie alla partenza. Nel corridoio dove eravamo attesi per prendere il treno c’erano diversi giovani piuttosto agitati. Ricordo poco o nulla del viaggio in treno fino all’aeroporto. Salici e ontani accanto a tranquilli ruscelli.

Quando scesi dall’aereo a Schiphol fui sopraffatto dagli odori e dai colori. Donne che indossavano giacchette primaverili e cappelli, strani vestiti. La mia interprete, una donna giovane e attraente, mi accolse con un abbraccio. Attraversai la città in un costante stato di stupore. Un ponte in lontananza, sospeso su un filo invisibile. Un’università. La piazza che le stava di fronte.

Mi lasciarono nel mio nuovo appartamento per farmi riposare dopo il viaggio. Feci un giro nel giardinetto sul retro. Un ramo ricoperto di fiori viola pendeva dal muro, mentre una ragazza stava sbattendo i tappeti dalla finestra della casa accanto. Le dissi, parlando nella mia lingua, che ero uno studente perseguitato. Le chiesi di prestarmi uno dei suoi tappeti per sdraiarmici sopra. Lei mi sorrise.

I miei occhi si riempirono di lacrime per mio padre. C’era qualcosa a cui non avesse rinunciato o che non avesse sacrificato? Per inseguire un ideale, si era costruito una vita che si era sepolta da sola. Una vita piena di rancore in un’impaurita cittadina dimenticata da Dio. Credevano di farlo per noi, e per i nostri bambini. Ma quello era il mondo della loro immaginazione, e ce lo avevano descritto in modo falso, e noi in un primo momento l’avevamo accettato come l’unica realtà possibile.

***

Michels era l’allenatore perfetto per me. Pretendeva una disciplina fantastica. Si comportava come un addestratore di animali, anche con i suoi assistenti. Diceva che ero il suo giocatore preferito perché non potevo fargli domande. Diceva a tutti che, una volta arrivati allo stadio, eravamo solo i numeri che portavamo sulla schiena. Fuori tornavamo a essere persone e potevamo di nuovo parlare tra noi.

Ogni notte rientravo soddisfatto nel mio appartamento con una sola sedia. Non ho mai capito perché uno dovrebbe giocare una partita, in cui perde quattro chili del suo peso corporeo, per niente. Quando indossi la maglia e ti allacci gli scarpini, l’obiettivo è vincere. Altrimenti puoi anche restare a casa e guardare la televisione.

Questa mia attitudine si rivelò preziosa per gli olandesi, che non erano feroci di natura. L’arte della difesa, se così si può definire, era un concetto totalmente estraneo ai miei compagni di squadra. Loro premiavano la Tecnica e la Tattica. Il coraggio, la voglia di vincere, la velocità, la cattiveria agonistica: nessuna di queste caratteristiche destava negli olandesi molto interesse.

Per questo Michels, durante gli allenamenti, cercava in ogni modo di sviluppare l’aggressività. In alcune partite si comportava come un arbitro diabolico, chiamando i falli con una tale parzialità che presero a soprannominarci “i Sanguinari”. Fece in modo che potessimo vivere di solo calcio: riuscì a far aumentare gli stipendi, così Cruyff poté smettere di lavorare in tipografia, Keizer dal tabaccaio e Swart in merceria.

Cercate di capirmi, però, non era lui che segnava i gol. Lui faceva la sua parte, noi la nostra.

Noi per primi, perfino noi, stentavamo a credere al potenziale che avevamo in mano. Nella prima partita contro il MVV Maastricht vincemmo 9-3 e io segnai cinque gol. Un difensore! In quella stagione realizzammo centoventidue reti.

Johan Cruyff, Piet Keizer, Barry Hulshoff, Ruud Krol, Gerrie Mühren: erano tutti scatenati in mezzo alla nebbia, insieme a me, contro il Liverpool, nel secondo turno di Coppa Campioni, il 7 dicembre del 1966. Insieme rimodellammo il pianeta del calcio. I giocatori del Liverpool non ci degnarono neanche di uno sguardo durante il riscaldamento; la loro metà campo era piena di semidei che l’estate precedente avevano vinto la Coppa del Mondo con la maglia della nazionale. Mentre facevamo stretching nello stadio calò la nebbia, e la partita si giocò in una tale oscurità che l’operatore del tabellone, seduto accanto alla nostra panchina, doveva mandare i raccattapalle a fondo campo per capire cosa stava succedendo laggiù. Chiese conferma una prima volta quando gli dissero che avevamo segnato un gol, e la chiese di nuovo quando gli dissero del secondo finché, al terzo in meno di dieci minuti, cominciò a sbraitare contro i raccattapalle: “Forza ragazzi, smettetela di inventarvi storie!” Le sue parole finirono su tutti i giornali olandesi del giorno dopo. Una delle prime pagine, in lettere così grosse da non lasciare spazio per nient’altro, proclamava: "AJAX 5-1!" Ovunque andassimo - negozi, cinema, scuole, ristoranti - quei due numeri continuavano ad apparirci davanti.

Quando andammo a Liverpool per la partita di ritorno, tutti dicevano che questa volta non ci avrebbero sottovalutato. Il loro allenatore predisse la vittoria del Liverpool per 7-0. Pareggiammo 2-2. Un quotidiano di Amsterdam titolò: "L’AJAX vince 2-2".

C’era una relazione tra la rivoluzione culturale e quella calcistica? I giornalisti volevano la nostra opinione a riguardo. Keizer disse di no. Hulshoff disse di no. Krol disse di no. Mühren disse di no. Io dissi di no. Michels si rifiutò di rispondere. Cruyff disse che era un’ipotesi intrigante. Durante le interviste del dopopartita si mise a parlare dei “Progetti bianchi” dei Provos. Cosa ne pensava del piano di Luud Schimmelpennink di fornire biciclette gratuite a tutta la città? Il povero Michels se ne stava nel suo ufficio, i gomiti sul tavolo e le mani nei capelli.

Usciva ogni tanto solo per cacciare qualche Provo dallo spogliatoio. Erano facili da riconoscere, tutti vestiti di bianco. E adoravano Cruyff, che attirava un mucchio di giornalisti.
“Di che sta parlando?” chiese Michels a un tizio che gli stava accanto, indicando uno dei Provos.
“Dice che in questa Nuova Babilonia la brama di aggredire sarà sublimata dal desiderio di divertimento,” spiegò Cruyff.
“Oh, per amor di Dio,” disse Michels.

Cruyff non si era mai fatto portavoce di questa roba, ma era chiaro che in parte ci credeva, che li teneva d’occhio. Ogni volta che entrava in campo, la sua intenzione era di rivoluzionare il gioco. Noi ci accontentavamo semplicemente di vincere.

E nonostante tutto, di notte, steso sul letto con la mia vicina ancora intenta a sbattere i tappeti, vedevo le facce dei miei genitori e mi chiedevo se questo fosse una sorta di strano regalo che mi avevano fatto: tattiche partigiane, strategie partigiane. Nella loro guerra non c’era né attacco né difesa, e gli accerchiamenti si creavano e si dissolvevano fluidamente da entrambe le parti; non si vinceva con la superiorità numerica ma grazie all’ingegnosità tattica. La sopravvivenza, per un partigiano, significava saper essere creativo con lo spazio.

“Affascinante,” disse Michels quando gli accennai questa teoria. Gliene parlai durante un trasferimento in pullman, mentre lui si lamentava di Cruyff. Il mio olandese a quel punto mi permetteva di intrattenere qualche conversazione al limite del comico.

Ma finché continuavamo a vincere andava tutto bene. Stavamo diventando qualcosa di maestoso e imbattibile. Eravamo marcati da due difensori e, l’istante dopo, completamente liberi. Il terreno intorno a noi sembrava stretto e affollato, l’istante dopo largo e spazioso. La brillantezza dei nostri passaggi era senza pretese: il bianco e nero del pallone che si stagliava contro il blu del cielo. Contro il verde. Belli nella loro precisione, semplici e modesti. Nessuno festeggiava o si toglieva la maglietta dopo quei passaggi.

Il cattivo tempo o un terreno disastrato potevano apportare diversi tipi di vantaggi. Una volta Keizer segnò in un campo ridotto a un pantano, facendo una palombella nel fango denso e ingannando i difensori turchi che si aspettavano un rimbalzo e si trovarono sbilanciati quando la palla rimase incollata al terreno. Un emiro del Kuwait, in tribuna, rimase così colpito che a fine partita si tolse dal polso l’orologio d’oro e lo regalò a Keizer. Contro il Panathinaikos, sotto un violento diluvio, giocammo l’intera partita effettuando i passaggi nelle zone con il drenaggio peggiore, intrise d’acqua, sapendo che la palla si sarebbe fermata prima, mentre i greci continuavano a correre oltre.

Sotto la guida di Cruyff, costruivamo castelli in aria, mentre lui appariva sempre nel punto esatto dove c’era più bisogno, ogni volta a indicare, indicare e indicare: tu vai là; tu rimani qui. Sarebbe stato felice di giocare in un campo lungo due chilometri, senza porte, nient’altro che stupende onde di movimenti che facevano avanti e indietro.

La nostra perfezione sembrava essere automatica. Il nostro istinto intimidatorio. Ci ponevamo di fronte ai nostri avversari con la mente calma, una tecnica immacolata e passaggi visionari. La bellezza dell’Ajax all’apice della sua forza era come la bellezza del pensiero.

Cruyff diventò l’idolo dei giovani di Amsterdam. “È il nostro John Lennon,” mi disse Keizer dopo una partita. “Chi è John Lennon?” risposi io.

Comprai mobili nuovi per il mio appartamento. Mandavo sol di a casa. A mio fratello fu negato due volte il permesso per venire a trovarmi.

La principessa d’Olanda annunciò che si sarebbe sposata con un tedesco che aveva prestato servizio nella Wehrmacht. L’intera città rimase sconvolta dalla notizia, come se fosse imminente la fine del mondo. Cruyff rilasciò diverse interviste a riguardo e partecipò a dimostrazioni di protesta. Qualcuno scioglierà Lsd nell’acquedotto?, gli chiesero i giornalisti dopo una partita contro il Feyenoord. Faranno uscire gas esilarante dall’organo della chiesa?
Lui si girò verso di me. “Tu che ne dici, Vasović?” mi chiese. Tutti i giornalisti si girarono con lui, le penne pronte a scrivere.
“No parlo,” risposi io, e mi abbassai i calzoncini per cambiarmi. Passai il giorno del matrimonio nel mio appartamento. In televisione, i Provos e gli studenti manifestavano tutti vestiti di bianco con i loro striscioni. La polizia, tutta in nero sullo sfondo, era lì che aspettava di caricarli.

Aiutami, mi scrisse mio fratello. Tuo fratello ha bisogno d’aiuto, mi scrisse mio padre. Mio fratello si era ficcato in una sorta di diatriba d’amore con un avvocato di nome Tasa, che si era poi rivelato un membro dell’Udba. Tuo fratello è fatto così, mi scrisse mio padre. Ha cornificato uno della Polizia segreta. In un bar, ubriaco, si era lasciato andare a un’invettiva contro la Jugoslavia e il suo silenzio durante l’invasione dell’Ungheria. È successo dieci anni fa, gli avevano detto i suoi amici. Non è il caso di parlarne ora. Ma mio fratello era salito su un tavolo e si era messo in piedi, nonostante il suo ginocchio. Gli immortali ungheresi! Puskás in prigione!

Riuscii a organizzare un viaggio a casa solo alla fine del campionato. Passai la notte a Belgrado e all’alba camminai fino alla stazione dei treni. La foschia galleggiava sopra i boschi e le cime dorate degli alberi. Avevo bisogno di aria pulita. Tirai su col naso come un cavallo e sentii la freschezza.

Trovai mio fratello nascosto in una cittadina non lontana dalla nostra. Alloggiava in una stanza con un fabbro bosniaco e un musulmano nullatenente che si era trasferito lì per riuscire a sopravvivere. La stanza era pulita, con due letti, una stufa a legna, un piccolo tavolo in abete e un lavandino. Un ontano ombreggiava la piccola finestra sul retro.

Il fabbro mise il tè sul fuoco per noi due e poi scomparve. Ci abbracciammo.

Tutti amavano mio fratello. Era un uomo aperto e sensibile, così bello che le donne si giravano quando passava per strada.

Mi disse di aver letto della partita contro il Liverpool. Sorridemmo e parlammo dei vecchi tempi e della stalla in cui giocavamo a pallone.
Mi chiese di aiutarlo a lasciare il Paese. Gli chiesi quale fosse la sua situazione finanziaria. Disse di non avere alcuna situazione finanziaria. I nostri genitori erano in condizioni pessime, mi confessò. Stava mettendo alla prova la loro fede nell’infallibilità del Partito. Farlo gli causava non poco dolore. Sarei riuscito a farlo uscire?
Gli dissi che ci avrei provato. Ovvio che ci avrei provato. Rimanemmo in silenzio, il tavolo in abete tra di noi. Lui scrutò la mia espressione. Era come se avessi detto: Cosa posso farci?
Avevo portato dei soldi, nascosti, insieme ad altri regali. Li accettò tutti con una sorta di apatia mista a benevola paura. Non rifiutava mai un aiuto finanziario.

Al check-in dell’aeroporto, un ufficiale mi chiese come mai non giocassi in patria. Gli risposi che stavo portando la gloria del calcio jugoslavo in Occidente. Mentre guardava le mie carte mi disse, “E tuo padre è un uomo onesto”.
“Cosa le fa pensare che io non lo sia?” gli chiesi. Si voltarono tutti verso di noi.
L’ufficiale non provò alcun imbarazzo. “Stavo parlando di tuo padre,” disse con calma, restituendomi il passaporto. “Io non so neanche chi sei, tu”.

Una volta tornato scrissi a mio fratello per raccontargli come procedevano i miei tentativi. Non ricevetti alcuna risposta. Mio padre mi scrisse circa una settimana dopo, senza menzionare la faccenda. Mi descrisse invece come si era sentito durante la Liberazione: il subbuglio dentro. L’enorme gioia che lo circondava ovunque - e lui che ci passava in mezzo, percependo solo una sorta di pesantezza.

Gli olandesi nel frattempo continuavano a tracciare linee rette nel futuro. Non gli bastava vincere; erano anche determinati a fare proseliti, a far conoscere la loro bellezza e la loro bravura a tutto il mondo. Il loro calcio era come la loro politica estera: una luce accesa su tutte le nazioni. I Provos fecero un poster con Cruyff al centro e lo slogan MEGLIO I CAPELLI LUNGHI CHE LA VISTA CORTA.

***

Mi sentivo offeso da quel poster. Lo evitavo. Evitavo Cruyff. Poi accadde che, prima di un’amichevole, il preparatore si accorse di aver finito il nastro adesivo, con noi due che eravamo ancora lì scalzi. Sparì nei meandri dello stadio per cercarne altro. Cruyff e io rimanemmo stesi su due tavoli, uno di fronte all’altro, i nostri piedi quasi a contatto.

I suoi capelli erano più lunghi che mai. Si grattò un orecchio. Sembrava che mi studiasse come se fossi un problema di scacchi di qualcun altro. Mi chiese, “Che sta succedendo nel tuo paese, Vasović?”
“Non lo so,” gli risposi alla fine, quando riuscii a parlare.
“Ci sei appena stato,” disse.
“Sì,” dissi io.
“A trovare tuo fratello,” aggiunse.
“Sì,” risposi.
“Ho sentito che aveva qualche problema,” disse.
“È stato Michels a dirtelo?” domandai.
“Non è venuto con te,” disse lui.
“È qui?” chiesi io. “Tu lo vedi?”
Si guardò intorno. Poi riprese a toccarsi l’orecchio.
“Era un grande giocatore,” commentò alla fine.
“Che c’è che non va?” mi chiese il preparatore, una volta tornato.
“È sempre così,” lo informò Cruyff.

Giocai la peggior partita della mia vita. A fine gara rimasi steso sul terreno di gioco. Qualcuno mi chiese la maglia.

Tutto diventò meno piacevole per me. Io avevo l’intelligenza calcistica, che non ha niente a che fare con l’intelligenza normale. Le cose più difficili nella vita sono le scelte, come diceva sempre il nostro allenatore. Mi ero strappato un muscolo della coscia che non voleva saperne di guarire. Correre era diventata una specie di prova del fuoco. Come diceva il Santo Patrono, il Dolore è un angelo che mostra agli uomini tesori che altrimenti sarebbero rimasti nascosti per sempre.

I miei genitori avevano smesso di scrivermi. Mio fratello aveva smesso di scrivermi. Il caso aveva voluto che alcune cose non fossero mai state dette nel loro Paese, mentre qui avevano trovato espressione. Non aveva senso stare a discutere su quale delle due strade fosse quella “giusta”. Ognuna coinvolgeva persone diverse che agivano come se fossero state internamente condizionate a farlo.

Una domenica assolata, poco dopo il Giorno della Regina, che era stato segnato da episodi di violenza e sfrenato consumo di alcol, stavo per effettuare una rimessa durante un’amichevole contro il Glasgow, quando colsi lo sguardo di una ragazza bionda con una retrusione mandibolare e le lacrime agli occhi; subito dopo mi allontanai dalla palla e non ne calciai mai più una.

Cosa aveva rievocato in me quella visione? La giovane donna con il tappeto alla finestra. Mio padre. Mio fratello. Il sovramorso di uno dei ragazzi che giocava con noi nella stalla. Chi può sentirsi libero quando i suoi cari non lo sono?

Michels provò a convincermi e a farmi ragionare per una settimana circa, poi rinunciò.
“Lascialo andare,” gli disse Cruyff, mentre assisteva al suo ultimo tentativo.

Mi trovai un lavoro nel reparto pulizie del nuovo Café Het Station, che mi sembrava fantastico e tranquillo. Gli immensi spazi desolati dell’adiacente stazione degli autobus emergevano dalla foschia ogni mattina, mentre passavo la scopa.

Una volta mi capitò perfino di scansarmi, quando una palla con cui giocavano alcuni ragazzi lì vicino rotolò nella mia direzione.

Non era forse vero che anche quando ridevamo eravamo tristi? Nell’ultima lettera che ricevetti da mio fratello, lui disse che mi stava scrivendo dalla più triste delle prigioni: il suo cuore.

Buoni pensieri, cattivi pensieri, colpi di testa perfetti, tiri al volo sbilenchi da angolature impossibili e geometrie immaginate. Vicini dall’espressione placida e birra: tutte queste cose diventano parte di una grande sfera invisibile in cui ognuno vive e sulla cui esistenza non c’è alcun dubbio. Queste sfere ci proteggono dal dolore. “Due per proteggermi, due per svegliarmi” recitava una di quelle canzoni sugli angeli che cantavamo da bambini, e la protezione da parte di queste entità invisibili era qualcosa di cui gli adulti avevano bisogno non meno dei bambini.

Quindi, scrissi ai miei genitori, un’ultima volta, non dovete pensare che io sia infelice. Cosa sono la felicità e l’infelicità? Dipende da cosa succede dentro. Io, ogni giorno, sono grato per queste sfere interiori - sono grato di averle -, grato di avere voi, e questo, tutto questo, mi rende felice.

(2012)

Il testo è liberamente disponibile in rete qui: "Vice" | Tratto da Jim Shepard, Non c'è ritorno, Roma, 66th and 2nd. 2012.